Belgrado – 26/30.10.2022
Foto: Vincenzo Fugaldi
Trentottesima edizione del Beogradski Jazz Festival, iniziato nel lontano 1971, con una lunga interruzione a causa della guerra. Lo storico festival della capitale serba, con la direzione artistica del dinamico, competentissimo, entusiasta, onnipresente Vojislav Pantic (nella foto qui a sinistra), e uno staff puntuale ed efficientissimo, si è avviato con un Serbian showcase, che ha fornito in quattro concerti un’idea dell’alto livello qualitativo del jazz di quella parte della ex Yugoslavia. Il quartetto Shime (Luka Ignjatovic sax alto, Sava Miletic pianoforte, Boris Šainovic contrabbasso, Peda Milutinovic batteria), insieme all’orchestra d’archi di venti elementi Muzikon, ha suonato composizioni originali del sassofonista e del pianista, realizzate appositamente per l’organico. Grazie anche ad ottimi arrangiamenti, il concerto ha pienamente convinto, alternando momenti classicheggianti, altri ritmici, con una scrittura accademica di taglio elevato nella quale il quartetto si inseriva con gusto, dando spazio agli assolo del sax, misurati ed essenziali, con una sonorità limpida e un fraseggio controllato, e ai sapidi interventi del pianoforte. La musica si è spostata poi verso un jazz più contemporaneo e astratto, sempre estremamente valido e fruibile.
Il quintetto della flautista Milena Jancuric (Milan Jancuric sax tenore, Aleksandar Dujin pianoforte, Ervin Malina contrabbasso, Petar Radmilovic batteria) è stato parimenti convincente, fresco ed efficace, con il suo modern mainstream, i suadenti incroci tra i fiati – i due sono fratelli – delicati e comunicativi, con un bel senso melodico, e una ritmica davvero consona, con una menzione per il pianista, lirico e misurato.
Sorprendente il concerto del pianista Aleksandar Jovanovic Shljuka dal titolo Piano Solo, come il suo album del 2021. Uno strumentista notevolissimo, da seguire con attenzione, con influenze jarrettiane ma che vanta una cifra stilistica personale, lirico, gradevolmente melodico, con un repertorio che ha alternato atmosfere diverse, fra cui una sorta di bolero blues ricco di festoso swing e all’arrangiamento prezioso di una song romantica con delle belle progressioni armoniche, composta nel secolo XIX da un componente della famiglia reale.
Ha chiuso la serata il bel trio di giovani Power Nap (Predrag Okiljevic sax tenore, Marko Curcic basso elettrico, Aleksandar Škoric batteria), un collettivo nel quale spiccava il tenore, dal suono potente e dal fraseggio assertivo, con belle sonorità, un uso del basso creativo con timbri inusuali, a tratti chitarristici, sino a creare una sorta di tappeto sonoro a sostegno del lavoro del gruppo. Un jazz contemporaneo di grande qualità.
La seconda serata, nella prestigiosa sede della Dom Omladine che ha ospitato quasi tutti i concerti, è iniziata con l’improvvisazione radicale di Ken Vandermark (al sax tenore e al clarinetto), Nate Wooley (alla tromba) e Paul Lytton (alla batteria). Pur con alcuni momenti meditativi coordinati, e nonostante il grande lavoro sul suono e l’interazione, i tre grandi protagonisti del genere non hanno particolarmente convinto nel loro set stringato e piuttosto compassato. L’ultimo concerto della serata era invece affidato alle dita del pianista polacco Dominik Wania, un musicista ancora giovane ma che vanta prestigiose collaborazioni (Stanko), sino a un disco di piano solo per l’ECM del 2020. Di evidente formazione classica, un po’ penalizzato dall’ora tarda, ha eseguito musiche dal suo disco e omaggi al grande jazz del suo paese (il citato Stanko, Komeda, Namyslowski, quest’ultimo scomparso lo scorso febbraio), con tecnica adamantina.
La parte centrale della serata era dedicata alla tappa di Belgrado del tour che celebra il venticinquesimo anno dei Sex Mob (Steve Bernstein, tromba a coulisse; Briggan Krauss, alto e baritono; Tony Scherr, contrabbasso; Kenny Wollesen, batteria). Chi ha avuto la fortuna di assistere a un concerto di questo formidabile longevo quartetto sa che lo attende una carica di energetico groove senza pari, e anche questo concerto ne è stata una conferma. Dal folgorante ritmo del brano iniziale, marcato da un Wollesen incisivo come non mai, e sostenuto dall’inconfondibile metronomico suono scuro di Scherr, a Sign ‘O’ the Times di Prince, dopo avere attinto al loro vastissimo repertorio i quattro, sotto la guida entusiasmante di Bernstein hanno suonato brani che saranno contenuti nel disco che uscirà a breve per l’etichetta Corbett vs. Dempsey, fra i quali una splendida versione dell’ellingtoniana Don’t You Know I Care con Krauss al baritono. Richiestissimo bis sulle note di Heaven dei Talking Heads, a chiusura di un concerto memorabile.
HI5 è un giovane quartetto austriaco (Chris Norz batteria, Matthias Legner vibrafono, Philipp Ossanna. chitarra, Clemens Rofner basso e contrabbasso) che, tra minimalismo, fusion, rock con venature progressive, ha suonato un set basato su un lavoro corale, nel quale tuttavia i singoli si ritagliavano il proprio spazio, rendendo un omaggio a Schubert e non trascurando di eseguire alcune ballad.
Avishai Cohen è arrivato a Belgrado con la medesima formazione dello splendido disco ECM “Naked Truth” (oltre al leader alla tromba, al flicorno e voce recitante, Yonathan Avishai al pianoforte, Barak Mori al contrabbasso e Ziv Ravitz alla batteria). Con il suo suono di tromba personale e inconfondibile – e con la sordina anche davisiano – sempre elegante anche nel look, sicuro e comunicativo, ha riproposto i brani della suite del disco, supportato al meglio dal gruppo, un trio che rasentava la perfezione, lirico e incisivo all’occorrenza. Per non dire dell’altissimo livello qualitativo delle composizioni, e del suggestivo recitativo finale dal testo profondo (il poema Departure di Zelda Schneurson Mishkovsky, da lui tradotto dall’ebraico), sostenuto da Cohen con piglio attoriale. A suggellare un concerto emozionante, il bis eseguito al flicorno, il secondo movimento del Piano Concerto di Ravel.
A chiudere la serata, altre grandi emozioni affidate al notissimo gruppo di Lars Danielsson Liberetto (oltre al contrabbassista, Gregory Privat al pianoforte, John Parricelli alla chitarra e Magnus Öström alla batteria), una formazione che nel 2023 andrà a incidere un nuovo disco con un’orchestra sinfonica, e che a Belgrado ha confermato il suo valore, basato sulla validità delle composizioni, suadenti nei brani d’atmosfera e trascinanti in quelli più mossi, valorizzando la scintillante tecnica di Privat, il drumming di Öström pieno di colori e sfumature, e la chitarra di Parricelli che fornisce un contributo essenziale nell’economia degli arrangiamenti, per non parlare del contrabbasso che è sempre comunicativo e intenso, e si è ritagliato un intenso siparietto per una esecuzione in solo di Both Sides Now di Joni Mitchell.
L’Orchestre Nationale de Jazz, nata nel 1986 e finanziata dallo stato francese, vive un costante ricambio generazionale e della direzione, che le garantiscono nel tempo vitalità e freschezza. Oggi è diretta dal chitarrista e compositore Frédéric Maurin, e nell’ampia formazione schiera archi e quattro voci. Hanno suonato una musica contemporanea austera e complessa, con arrangiamenti preziosi e spazi solistici controllati nella durata, con un ruolo fondamentale per le voci, fra le quali non si può non citare l’importante contributo vocale di Leïla Martial, incisiva e funambolica.
Immanuel Wilkins ha portato a Belgrado il quartetto con il quale ha registrato il suo disco Blue Note “The 7th hand» (Micah Thomas, pianoforte; Kweku Sumbry, batteria, con la sola sostituzione di Daryl Johns con Rick Rosato al contrabbasso). I quattro hanno esordito con un post bop dinamico, diretto e senza fronzoli, per arrivare man mano a un sorprendente lavoro di microvariazioni su riff ripetuti, con il fraseggio instancabile e travolgente dell’alto di Wilkins – memorabile una lunga sezione in trio senza pianoforte -, che comunque lasciava ampio spazio anche all’ottimo lavoro degli altri componenti, specie di Sumbry, ventiquattrenne batterista di Washington, che è il partner ideale per la ricerca musicale di Wilkins, e lo assecondava al meglio nello sviluppo del lungo set, che progressivamente si spostava verso territori più contemporanei, con assolo irruenti e senza sosta, fino ad aprirsi e volare in un flusso frenetico e sorprendente.
Il prestigioso grande teatro MTS Dvorana, con i suoi circa 1400 posti sold out, ha accolto il formidabile trio di Omar Sosa (Childo Tomas, basso elettrico; Ernesto Simpson, batteria) insieme alla Big Bend RTS. La poderosa orchestra e gli arrangiamenti perfetti di Jaques Morelenbaum hanno caratterizzato un concerto impreziosito da una carica ritmica fortissima, merito anche del percussionista dell’orchestra Lazaro del Toro Vega, da forti assolo di alcuni componenti della big band che hanno dato ulteriore prova dell’altissimo livello del jazz serbo. Un viaggio fra i ritmi afrocubani coinvolgente, nel quale Sosa ha sfoderato la sua formidabile tecnica pianistica e le sue grandi doti comunicative, in accompagnamento sostenendo mirabilmente il lavoro dei solisti e fornendo loro una carica di energia senza pari.
La tenorsassofonista inglese Nubya Garcia, con il suo quartetto (Deschanel Gordon pianoforte e tastiere, Max Luthert contrabbasso, Sam Jones batteria), pur mostrando un bel suono e un buon fraseggio, ha suonato una musica epidermica, che non lasciava il segno, tranne che in un bel duo sax-batteria.
In tarda serata, gli italiani Cyclic Signs (Enrico Morello alla batteria, Daniele Tittarelli al sax alto, Francesco Lento alla tromba, Matteo Bortone al contrabbasso) hanno riproposto alcuni brani del loro riuscitissimo disco del 2021, e alcuni di recente composizione. Il suono notturno e peculiare del quartetto, una delle formazioni più valide e rigorose del jazz italiano, ha ancora una volta convinto per le qualità solistiche dei singoli e la perizia compositiva.
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