Roma, Casa del Jazz – 7.6/6.8.2023
Foto: Luca Labrini
Anche quest’anno la Casa del Jazz di Roma è senza dubbio riuscita ancora una volta a vincere la sua sfida, proponendo un cartellone estivo di primissima qualità che la proietta tra le manifestazioni jazzistiche più interessanti in Italia e non solo. Un’edizione, quella del Summertime, che ha visto esibirsi per due mesi quasi ogni sera alcuni dei nomi più interessanti sulla scena internazionale, dai giovani sempre più lanciati ai grossi nomi che hanno fatto la storia recente e non della musica afroamericana, in un mix esplosivo che ha davvero accontentato anche gli appassionati più esigenti.
Tante le prime volte sul palco del festival a partire dal duo tastiera e batteria Domi & JD Beck, vera rivelazione dello scorso anno con un album di debutto firmato Blue Note. A differenza però del lavoro in studio, nella dimensione dal vivo si sente eccome la mancanza dei vari ospiti che impreziosiscono il disco, in una musica quasi fiabesca che inizialmente colpisce per la dimestichezza dei due giovanissimi musicisti, ma che alla lunga si ripete stucchevolmente in un loop che potrebbe andare avanti all’infinito senza mai colpi di scena e senza un tema che colpisca. A loro però un pregio enorme va riconosciuto, quello di aver avvicinato un pubblico giovane ed entusiasta.
Uno degli appuntamenti più attesi è stato il ritorno a Roma, a distanza di più di dodici anni, del sassofonista norvegese Jan Garbarek, primo di in una serie di concerti dedicati alle colonne dell’etichetta bavarese ECM. Insieme a Jarrett, sicuramente Garbarek ha rappresentato al meglio le atmosfere caratteristiche della casa discografica e quindi del jazz europeo, qui con il suo quartetto che da svariati anni l’accompagna in giro per il mondo per poche e selezione esibizioni. Un insieme di influenze che vanno oltre lo steccato di generi e che sconfinano in una musica globale in un equilibrio perfetto. Un concerto aperto da Gautes-Margjit dove ogni spunto è fonte di un dialogo serrato tra i quattro, colorito dalle suggestioni e dai suoni del percussionista indiano Trilok Gurtu. I lunghi brani in scaletta ripercorrono con gusto le varie direzioni musicali intraprese durante la carriera del leader, arrivato in splendida forma all’età di settantasei anni, in uno stile oggi sempre più raro.
Altrettanto atteso un altro protagonista dell’ECM e riferimento del jazz europeo, il sassofonista inglese John Surman. Da sempre amato da un variegato pubblico, il polistrumentista ha fatto ritorno anche lui dopo anni di assenza in un duo completato dal pianista norvegese Vigleik Storaas, suo compagno già dagli anni ‘90 del Nordic Quartet. La formazione più intima permette ai due una maggiore libertà in brani brevi, che portano la firma di entrambi, ma intensi, dove Surman, al soprano e clarinetto basso, può naturalmente sfoggiare tutta la sua raffinata poetica in melodie attraenti che proiettano lo spettatore verso luoghi lontani e rarefatti in un interplay davvero intenso. Un altro nome storico dell’ECM è quello del contrabbassista Dave Holland, che per l’occasione si è presentato alla Casa del Jazz in testa ad un quartetto nuovo di zecca, con Kris Davis al piano, Jaleel Shaw al sax contralto e alla batteria di Nasheet Waits. Qui l’eleganza del musicista inglese la fa da padrona, ben supportato dai suoi colleghi, in un contesto caratteristico della scrittura complessa di Holland: pochi brani lunghi e articolati che testimoniano gli ambiti musicali in cui si è formato e dove soltanto nel finale trovano spazio anche elementi blues e bop, per una nuova sfida che lo vede ancora una volta vincitore.
Due musicisti molto amati dal pubblico hanno riempito la platea con i loro rispettivi gruppi: entrambi nelle formazioni di Miles Davis negli anni ’80, il sassofonista Kenny Garrett e il bassista Marcus Miller hanno divertito, come al loro solito, e coinvolto il pubblico in una musica più accessibile e familiare. Garrett nella prima parte di concerto ha ripreso alcuni brani del suo ultimo lavoro “Sounds From The Ancestors” dove analizza le interazioni tra le radici della musica afroamericana con quelli dell’Africa occidentale in una corposa formazione e dove fin da subito a rubare la scena è il voluminoso batterista Ronald Bruner, Jr., già protagonista del collettivo chiamato West Coast Get Down. Un inizio coinvolgente a cui ha fatto da contraltare una seconda parte più leggera e meno interessante, ripresa fortunatamente nel finale da un bop più tirato e conclusa dalla festosa Happy People in cui finalmente sale in cattedra il fraseggio secco e lirico di un Garrett non particolarmente generoso. Il bassista di New York ha fatto tappa invece in testa ad una formazione più stringata rispetto alle ultime tournée, ma con il groove e la brillantezza di sempre: alla guida del suo nuovo quintetto e per la prima volta alla Casa del Jazz, Miller ha aperto il suo show con Detroit, ripercorrendo senza sorprese i brani che l’hanno reso celebre, intervallati dagli omaggi ai grandi della musica che l‘hanno formato, da Jaco Pastorius a Stevie Wonder, da Miles Davis con la loro immancabile Tutu a Come Together dei Beatles che chiude in trionfo il concerto con più spettatori della decennale storia della Casa del Jazz. Un successo ancora una volta più che giustificato per un artista che, come nessuno, riesce a mettere a servizio della musica una tecnica assoluta mai fine a sé stessa.
Chiusura in bellezza e ancora tanti spettatori per il sopraffino duo formato da Paolo Fresu e Omar Sosa, entrambi ormai di casa al festival. Questa volta è l’occasione per ascoltare dal vivo il loro ultimo e fresco nuovo album dal titolo Food, il terzo realizzato insieme. Ed è proprio dai tre album, con prevalenza inevitabilmente dell’ultimo, che i due attingono in un repertorio che si apre con S’inguldu e va via avanti con estrema delicatezza, questa volta con un uso più disinvolto ma sapiente dell’elettronica e delle parti vocali preregistrate che mai sovrastano i due musicisti. Un’intesa perfetta e sublime, frutto di una conoscenza ormai ventennale, che pone sempre la musica, meravigliosamente intrisa di varie influenze, al centro, per un concerto che meglio non avrebbe potuto concludere una stagione davvero da incorniciare.
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