Ivrea. 8.9.2023
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Anche quest’anno, fortunatamente, possiamo render conto dell’Open Papyrus Jazz Festival di Ivrea. Il doppio set del venerdì sera si è aperto con l’ottimo concerto del trio Barbiero-Gallo-Brunod ampliato e arricchito, per l’occasione, da Roberto Ottaviano (sax soprano e voce). Sul palco verrà riproposta parte di Gulliver seconda prova discografica del trio. Premettiamo, senza tema di smentita, che la presenza di Roberto Ottaviano, il rodaggio di oltre un anno dall’incisione e un pubblico attento e caloroso hanno fatto la sensibile, assai positiva differenza rispetto all’incisione citata. Quella di rivolgersi alla figura archetipica di Gulliver è idea semplice, quanto efficace: “nano-gigante” alla scoperta dei popoli del mondo, di un mondo senza muri ma con tante differenze che sarebbero altrettante risorse – è Danilo Gallo a ricordare l’assunto. Le musiche dei popoli del mondo, dal Piemonte (di Barbiero e Brunod) a la Puglia (di Gallo e Ottaviano) verso la vicina Etiopia e poi fino alla Cina, tutte filtrate attraverso la cultura musicale di quattro magnifici “maestri” dei rispettivi strumenti ma, ancor più, autori solidissimi di musiche e progetti propri. Le semplici melodie sono esposte in maniera chiara, piana, scoperta senza la necessità e il desiderio di alterarle o mascherarle in qualche modo, perché la forza e la bellezza di quelle melodie sta nella storia di quei popoli. La Liberation Orchestra sale alla mente fin dalle prime note, paradossalmente perché quello che la caratterizzava è quello che qui manca, ma persino il suono del contrabbasso di Gallo rimanda subito ad Haden. Apre il viaggio la bella melodia di Ethiopian Song esposta, dopo un’apertura dolente, all’unisono da chitarra e soprano: lettura attentissima ai timbri e agli equilibri sonori. La Norvegia di Reine si meridionalizza nei vocalizzi di Ottaviano per poi scolorare, magnificamente, in un’appena sfiorata Lonely Woman. Poi la Cina di Gaungling Song curata da un Barbiero percussionista sempre più misurato, raffinato e asciutto. Poi ancora il Piemonte di Maria Giuana, l’Irlanda di Scarborough Fair, anch’essa brano tradizionale, la Puglia e a chiudere la commossa dedica, ad un amico d’infanzia, di El Pueblo Unido. La presenza del sax soprano, vicino per timbro ed estensione alla voce femminile, ha accentuato il carattere vocale dei brani e ha ridefinito gli equilibri dando un solidissimo contraltare al bravissimo Brunod. Quella di questa sera è stata una musica senza ricchi crescendo o marcati contrasti dinamici, piana e serena, nonostante il tono dolente di diversi momenti. Per scalfire quella serenità che hanno i canti di chi ha attraversato mari e affrontato ogni traversia non sono bastati i tentativi di Ottaviano, tutti riuscitissimi, di scomporre e muovere un poco di più le acque; né l’uso accorto e misurato del pedale della chitarra di Brunod. Musica riflessiva, semplice solo se letta superficialmente; invece ricca, attentissima alle sfumature timbriche e ai più piccoli scarti dinamici, al tempo dei brani, alla durata e sequenza degli assoli, al continuo interscambio di ruoli.
A seguire, il set di Rossana Casale alla guida di un drumless quartet dalla scelta strumentale di difficile decodifica. Il set della cantante ha sofferto di un’apertura alquanto infelice quando il mirabile equilibrio, timbrico e di volumi sonori, del primo set è completamente svanito. Le cose sono migliorate nel corso dei brani successivi. Va reso onore al coraggio e alla baldanza di Rossana Casale nella scelta di anteporre, a considerazioni di convenienza, un repertorio sentito proprio, apprezzato ed amato. Ma le canzoni di Joni Mitchell sono di difficile lettura e interpretazione: per la caratterizzazione schiettamente american-folk, per i testi molto personali e, non ultimo, per le straordinarie qualità autoriali-vocali della Mitchell, difficilmente avvicinabili da chiunque. La Casale è stata un’ottima cantante, impegnata in ambito pop e jazz, con una passione e una padronanza del linguaggio jazzistico con non molti riscontri nel nostro paese. Pensiamo alla prova di “Billie Holiday in me” (2004) dove il confronto con un repertorio non meno ostico di quello della Mitchell ma più vicino alla sensibilità e alle corde, anche vocali, della Casale aveva dato assai buoni risultati frutti. Si perché, nella presente occasione, le difficoltà vocali, di estensione, intonazione e tenuta non sempre hanno permesso una lettura serena del mondo della Mitchell; sovente invece il solido mestiere di tutti i musicisti, con Rossana Casale in testa, hanno convinto il numeroso pubblico.
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