Ivrea. 9.9.2023
Foto: Carlo Mogavero per gentile concessione Ufficio Stampa Open Papyrus Jazz Festival
Nel nuovo spazio dello “Zac”, adiacente alla stazione ferroviaria, in luogo della tradizionale sede di S.Marta, al centro del passeggio della città di Ivrea, il 9 settembre, Luigi Onori presenta il suo nuovo libro “Abbey Lincoln, una voce ribelle fra jazz e lotta politica”. Sollecitato dalle domande di Davide Gamba, il critico e saggista romano si disimpegna brillantemente, riuscendo a fornire un quadro esauriente sui contenuti del testo, uscito da pochi mesi per la casa editrice “L’asino d’oro”. Onori ha lavorato principalmente sulle interviste, rilasciate dalla Lincoln a riviste specializzate e non, partendo, però, in primis, dall’ascolto di tutti i dischi della cantante afro-americana, incisi con fior di jazzisti, fra l’altro, da Max Roach a Sonny Rollins, da Eric Dolphy a Steve Coleman. L’opera non vuole, però, trattare solo della musicista, ma offrire un ritratto completo dell’artista, della sua personalità, delle idee e della posizione politica. All’inizio e alla fine dell’incontro con l’autore, poi, vengono diffusi due brani esplicativi del valore dell’indimenticabile interprete della “Freedom suite” di Max Roach.
Subito dopo, spetta al duo Silverio-Remondino occupare la scena. Massimo Silverio è un cantautore friulano che scrive le parole dei suoi pezzi nel dialetto della Carnia. Prima di eseguire ogni brano, il cantante e chitarrista ne illustra i contenuti testuali. La musica, malgrando le premesse, è lontana dal folk, dalle arie tradizionali. Si ascolta, infatti, una proposta che viaggia su tempi lenti, con i motivi dipanati da una voce dal timbro piuttosto uniforme, fra echi psichedelici e rimandi ad un sound debitore nei confronti di uno “stile ECM”, se così si può definire, dove il Friuli, in tal modo, incontra idealmente la Scandinavia. Il punto di forza del duo è, comunque, rappresentato dal batterista Nicholas Remondino, abile nel suonare il suo strumento con le mani, le bacchette, le spazzole, fino ad arricchire di nuances estensive quanto elaborato dal partner, utilizzando accortamente l’elettronica.
Alla sera, nel cortile del museo Garda, davanti ad un pubblico numeroso, aprono la serata le “Jazz Ladies”, e cioè le cantanti Paola Mei ed Elisabetta Prodon, accompagnate dal pianista Daniele Tione, dal contrabbassista Davide Liberti e dal batterista Giampaolo Petrini. La Mei, eporediese doc, dichiara di avere problemi per un improvviso e malaugurato abbassamento di voce, che ne limita parecchio le potenzialità. La partner, in questo modo, si trova a dover assumere un ruolo di maggiore responsabilità. La Prodon assolve al compito assegnato incoraggiando e sostenendo la Mei che, da parte sua, con il mestiere e con il carattere, riesce a condurre in porto il set, senza sfigurare affatto. Il quintetto esegue un programma di standards, da Cole Porter ad Horace Silver, con una certa verve e con convinzione. Fanno il loro correttamente i tre della sezione ritmica, distinguendosi per uscite in assolo di buona levatura, in special modo Liberti.
Il piatto forte, in coda alla rassegna, è costituito dal trio “MixMonk”, guidato dal batterista americano Joey Baron, in compagnia di due giovani e competenti musicisti belgi. Il gruppo ha all’attivo due album. Nel primo cd prevale la rilettura del repertorio del grande “Sphere”. Nel secondo capitolo, invece, sono in maggioranza le composizioni originali. Sia quel che sia, nell’ultimo set dell’Open, i tre mescolano ancora le carte, pescando dai due dischi pubblicati, dilatando alcuni brani per mezzo di improvvisazioni, a volte in solitaria, lunghe e felicemente articolate. Monk, o come autore o come ispiratore, stella polare, è, in ogni maniera, dentro ogni esecuzione, anche nei pezzi firmati dai componenti del terzetto. Joey Baron cambia pelle e tipo di approccio ad ogni mutamento di clima, di situazione espressiva. Usa le spazzole con maestria e delicatezza nei pezzi provvisti di swing o nelle ( poche) ballad. Si lancia in energiche sequenze funky in altri momenti, o si avvicina ad un accompagnamento dalle linee spezzate o zigzaganti, quando il trio devia sull’informale. Alla fine ci si rende conto di aver assistito ad una vera e propria lezione di batteria moderna.
Robin Verheien, al tenore e al soprano, è sorprendente per come sa attualizzare il linguaggio del sax sui classici monkiani e prendersi le giuste libertà di interpretazione e di reinvenzione. Pure nelle creazioni made in Mixmonk, il sassofonista ci mette lo zampino per farle decollare verso orizzonti ampi e sconfinati.
Il giovanissimo Bram de Looze, rivela un’ottima preparazione tecnica, una profonda conoscenza del repertorio classico e una notevole capacità di ascolto dei partners. In questo modo il pianista funge da cerniera fra gli strumenti ad ancia e la batteria, con un prezioso lavoro di raccordo. In più, negli assoli, De Looze, dispiega tratti originali, e non è poco, all’interno di un eloquio forgiato, principalmente, sullo studio di Monk e dei suoi epigoni.
Alla fine il trio non può esimersi dal concedere un bis ad una platea plaudente.
Si conclude così la quarantatreesima edizione dell’Open di Ivrea. Il festival, come consuetudine, non limita il raggio d’azione solo alla musica jazz o agli appuntamenti dedicati a libri sull’argomento. C’è spazio, infatti, per mostre di pittura e fotografia. La rassegna, inoltre, con il titolo “Tutti i colori del mondo”, è un omaggio a Rosa Parks. Attraverso questo personaggio si vuole favorire una meditazione sull’integrazione razziale, da qualsiasi angolo la si voglia osservare. Ancora una volta, quindi, il Music Studio ed il direttore artistico Massimo Barbiero riescono nella difficile impresa di collegare musica, parole, quadri, fotografia e riflessione sul sociale, per tener fede alla denominazione di open, non a caso attribuita al festival.
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