Dino Betti Van der Noot: compositore, conduttore
Alberto Mandarini, Giampiero Lobello, Tiziano Codoro, Paolo De Ceglie: tromba e flicorno
Luca Begonia, Enrico Allavena, Stefano Calcagno: trombone
Gianfranco Marchesi: trombone basso
Sandro Cerino: sax contralto, clarinetto basso, flauto
Andrea Ciceri: sax contralto
Giulio Visibelli: sassofono tenore, flauto
Rudi Manzoli: sassofono tenore
Gilberto Tarocco: sassofono baritono, clarinetto soprano, clarinetto basso
Luca Gusella: vibrafono
Emanuele Parrini : violino
Niccolò Cattaneo: pianoforte
Filippo Rinaldo: tastiere
Vincenzo Zitello: arpa celtica
Gianluca Alberti: basso elettrico
Tiziano Tononi: batteria, percussioni
Stefano Bertoli: batteria
Federico Sanesi: tabla, percussioni
Audissea – 2023
Dino Betti vuol farci sognare o, più semplicemente, ci chiede di attribuire un’importanza fondamentale al sogno, nelle sue varie declinazioni e interpretazioni. “Let us recount our dreams” è, infatti, il titolo dell’ultimo disco dell’ultra-ottantenne band leader milanese, un album “da sogno”, a tutti gli effetti, per la qualità dei temi, degli arrangiamenti, della costruzione complessiva delle cinque tracce. Ancora una volta il maestro di origini olandesi, da parte di madre, si affida al consueto e cospicuo numero di musicisti, 22 in tutto, su cui può contare ad occhi chiusi per vedere materializzate le sue trame sonore nella loro precisa fisionomia e nel loro colore originario. Ritroviamo nell’album alcune costanti del modo di procedere di Dino Betti, senza che questo significhi un appiattimento della proposta nel clichè, nella ripetizione di una formula. I brani partono piano, con quelle atmosfere che lentamente si svelano, fino all’apparire del tema conduttore. Da qui in avanti si aprono diverse evoluzioni possibili, dagli assoli isolati, incrociati o alternati, alla ripetizione dei refrain, ad opera magari di più strumenti, in un crescendo dinamico ed espressivo di rara compattezza e forza. Le due batterie e le percussioni, poi, intervengono per scandire il tempo e suggerire un ritmo, una cadenza, in orbite vicine ad un jazz-rock “domestico”, non aggressivo, si intende. Siamo lontani però, dallo schematismo compositivo. Le sorprese sono ogni volta comprese nel tipo di svolgimento scelto dal maestro milanese, a togliere certezze, a spiazzare l’ascoltatore. C’è un continuo rimescolamento delle carte, infatti, sottostante un andamento pianificato nel dettagli, a monte dell’esecuzione. Va, una volta di più, inoltre, sottolineata la ricchezza timbrica, basata principalmente sulle combinazioni arpa-violino e tastiere, atte a determinare il nucleo fondante il suono della big band, il “Dino Betti-sound”, se così lo vogliamo definire. Il lavoro a sezioni, dei fiati, è, in un certo senso, scomposto e ricomposto. Contano tanto le individualità, valorizzate nelle varie sequenze compositive, quanto i collettivi, a realizzare unisoni pomposi e sgargianti. Occorre, quindi, rimarcare una qual prevalenza di una vena sentimentale, coltivata maggiormente che nei precedenti dischi, ad accentuare, comunque, l’unicità del prodotto. Mai affidarsi al già sentito o esperito. È un principio ben presente nell’estetica del band leader ligure-lombardo.
“Let us recount our dreams”, in conclusione, è l’ennesima prova che non occorre spostarsi negli Stati Uniti, nella Mitteleuropa o in Scandinavia per incontrare il miglior jazz orchestrale del momento. L’ensemble di Dino Betti (italiano al 100%) è un chiaro esempio in questo ambito. Cosa vogliamo di più dalla vita?
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