59. Donostiako Jazzaldia

 

Donostia/San Sebastián, 23-28.7.2024
Foto: Vincenzo Fugaldi

Il festival diretto da Miguel Martín, iniziato nel 1966, è il più importante festival jazz in Spagna e uno dei principali in Europa. L’edizione di quest’anno, la numero 59, era incentrata su due figure chiave del jazz di oggi: John Zorn e William Parker.

Zorn era presente al festival con ben sei progetti diversi che ha sempre introdotto personalmente: Teresa de Ávila (Julian Lage, Gyan Riley); Suite for piano (Brian Marsella, Jorge Roeder, Ches Smith); Incerto (Lage, Marsella, Roeder, Smith); Simulacrum (John Medeski, Matt Hollenberg, Kenny Grohowski); Chaos Magick (Medeski, Marsella, Hollenberg, Grohowski); New Masada Quartet (John Zorn, Lage, Roeder, Kenny Wollesen). Formazioni diverse, dal duo di chitarre – una classica e una acustica, che ha eseguito le belle composizioni ispirate alla santa spagnola già ascoltate sul disco omonimo pubblicato nel 2021, con il magico, totale affiatamento tra i due chitarristi, che restituiva integralmente il profondo senso di spiritualità dell’opera, al piano trio guidato da Marsella, con alla batteria un Ches Smith che sottolineava ogni sfumatura delle composizioni che alternavano momenti di grande energia ad altri delicati. Incerto, in quartetto, ancora più interessante, fra poderoso swing, carica ritmica potente, begli scambi di fraseggi fra chitarra e pianoforte, atmosfere cangianti ma sempre efficaci. Lage in gran forma ha dato un’impronta forte al set, mostrando come questa formazione sia una delle migliori atte a eseguire le composizioni zorniane, qui più che altrove di taglio frammentaristico, che cattura e coinvolge, anche con alcuni momenti delicati e melodici che a volte Zorn non lesina nella sua bulimia compositiva. Piuttosto orientato su una pura energia rock, in alcuni momenti aspro e monolitico in altri più duttile, l’organ trio di Medeski, tornato sul palco l’ultima sera per Chaos Magick, anche qui con momenti potentemente rock, continui cambiamenti di tempo, brani d’atmosfera a tempo libero, altri ben leggibili, in un progetto molto interessante con il dinamicissimo Grohowski in primo piano. Ma l’apoteosi ovviamente era dedicata al New Masada Quartet, l’occasione preziosa in cui Zorn era sul palco con il suo sax alto, a orientare con precisione gli sviluppi della musica con la sua tipica conduction, eseguendo il bel repertorio scritto per questo gruppo, teso, asciutto, elegante, semplicemente perfetto, per uno dei migliori combo in circolazione in questo momento, nel quale se Roeder e Wollesen danno tantissimo, ancor più in evidenza è Lage, un chitarrista che sembra aver dato nuova linfa all’entusiasmo del leader, palesemente felice di guidare questa fortunata formazione, in seno alla quale tira fuori anche le sue grandi doti di sassofonista, senza risparmiarsi.

L’altro grande protagonista del festival è stato William Parker. Contrabbassista e polistrumentista, classe 1952, altro infaticabile animatore della scena newyorkese (suo è l’importante Vision Festival, avviato nel 1996), Parker ha suonato in duo con Eri Yamamoto, in quartetto con la medesima, Bob Brown e Ikuo Takeuchi, infine in trio con Yamamoto e Takeuchi. Il duo, nella suggestiva cornice del San Telmo Museoa, ha mostrato il Parker più informale, a tratti cameristico con l’archetto, in una vera celebrazione dell’arte del duo, resa possibile dalla lunga collaborazione con la pianista giapponese. Parker, collezionista di strumenti a fiato, ha suonato anche un flauto giapponese e un txistu, flauto popolare basco da poco acquistato a San Sebastián, e cantato. Grande spazio ovviamente all’arte pianistica di Yamamoto, che si sviluppa quasi telepaticamente lungo solidi binari ritmico-melodici, in un costante equilibrio improvvisativo, in una concezione musicale rara e preziosa. Bis sulle note indimenticabili di Soledad, da Raining on the Moon. La piazza Trinitate è stata invece il luogo del quartetto, ottima occasione per riascoltare Rob Brown, un altro dei più vecchi collaboratori di Parker, dal caratteristico penetrante e implacabile suono al sax alto. Inizialmente a un corno etnico, probabilmente basco, Parker passa al contrabbasso e la musica si libra secondo le ottime potenzialità spesso espresse dai gruppi del nostro, che qui si avvale della pianista e anche di un batterista perfettamente consono all’estetica del leader. Solidi walking conducevano i solisti nelle direzioni volute da Parker, e il quartetto non mancava di convincere, proponendo anche un’altra intensa versione di Soledad, DCDCDC (omaggio a Dennis Charles, Don Cherry, Daniel Carter) e la bellissima Malachi’s Mode, scritta per il contrabbassista dell’AEOC e da questa spesso eseguito. E infine il trio, al teatro Victoria Eugenia, preceduto dal conferimento del premio Donostiako Jazzaldia a William Parker da parte del direttore del festival Miguel Martín, e inizio del concerto agli amati flauti etnici, per poi passare a un omaggio a Sunny Murray (Oklahoma Sunset) e East Harlem Sunrise, per concludere con la struggente Corn Meal Dance, in una formazione felicemente consona al mondo espressivo di Parker.

Ma ovviamente Jazzaldia ha offerto tantissimo altro, per restare nell’ambito jazzistico (e tanto anche in altri ambiti, con concerti gratuiti per un pubblico per lo più giovanile). A cominciare dal quartetto allstars di Chris Potter, Brad Mehldau, John Patitucci e Johnathan Blake, all’ultima data del loro intenso tour: Potter, che con il suo tenore è il leader del quartetto, che suona tutte sue composizioni, era qui più misurato del solito, in favore di un Mehldau in stato di grazia. Il gruppo, che all’inizio appariva un po’ rigido, si è andato sciogliendo durante la serata, con la formidabile ritmica delicata e ricca di sfumature, con Blake sempre più efficace. Hanno scelto di suonare a volume basso, penalizzando forse un po’ il vasto uditorio della piazza Trinitate, ma la qualità del suono era ineccepibile. Potter si conferma come uno dei migliori sassofonisti in circolazione, con il suo suono limpido, terso, assertivo. Mehldau con i suoi assolo logici e simmetrici, che seguono sviluppi geometrici, swinganti ed essenziali, con una logica interna mirabile, implacabile, di assoluta bellezza, semplicemente perfetti.

Youn Soun Nah ha una nuova formazione, dopo il duo con Bojan Z: Eric Legnini e Toni Paeleman ai pianoforti e tastiere. Una scelta decisamente positiva, visto il risultato espressivo, che faceva risaltare con un accompagnamento vario e mai banale le sue ben note doti vocali, in un repertorio molto applaudito che comprendeva, tra le altre, una versione molto “coreana” e pertanto straniante di Sometimes I Feel Like a Motherless Child, una ipertecnica versione di Asturias colma di virtuosismi vocali di ogni sorta, la sua splendida Lament, una versione di Killing Me Softly accompagnata solo dal suono di un carillon, un omaggio a Maria Joao, La Foule di Edith Piaf, e per bis la waitsiana Jackie Full of Bourbon.

Sullo stesso palco, la sera successiva, una bella realtà del jazz spagnolo: Marco Mezquida con il suo recente trio Tornado (Masa Kamaguchi al contrabbasso e Ramon Prats alla batteria). Iniziano con una canzone popolare basca, Urepeleko Artzaia, nella quale il trio mostra già tutte le sue potenzialità, ottimo interplay, libertà esecutiva, affiatamento. Mezquida è sempre più incisivo, con una tecnica travolgente in entrambe le mani, uno swing micidiale, e si avvia a diventare uno dei nomi di punta del jazz europeo.

Mezquida ha preceduto Gregory Porter, che è arrivato con il suo ottimo gruppo (Chip Crawford al pianoforte, Emanuel Harrold alla batteria, Tivon Pennicott al tenore, Jahmal Nichols al contrabbasso e Ondrej Pivec all’Hammond). Con la sua voce baritonale forte, duttile, pastosa, ha entusiasmato la platea con una poetica soul di altissima qualità, una grande capacità di sostenere il palcoscenico con padronanza assoluta e un invidiabile senso dello spettacolo. Testi densi di contenuti e tanti successi eseguiti, da Hey Laura a Liquid Spirit, When Love Was King, You Can Join My Band, fino alla doverosa standing ovation del pubblico.

E ancora il duo tra John Scofield e Dave Holland all’ultima data del loro tour, con il loro incontro intimo e colloquiale, molto rilassati, con Holland sempre preciso, lucido, con assolo cristallini, e Scofield dal suono sempre venato di blues. Concerto davvero riuscito, entusiasmante, in un continuo scambio di stimoli reciproci su composizioni di entrambi estremamente gradevoli.

A Lakecia Benjamin l’organizzazione ha affidato un palco gratuito, con una folla festante come uditorio. La giovane sassofonista, col suo ormai noto quartetto, grazie alla grande energia che la contraddistingue, è riuscita a trascinare il pubblico nell’ascolto di una musica certamente non semplice, catturandone il consenso e gli applausi, grazie anche alla insostituibile carica ritmica fornita dal batterista E.J. Strickland. Lakecia, che fa anche ampio uso della voce con rap e recitativi, sta rafforzando il suono del suo sax, che diviene di anno in anno più assertivo e convincente, grazie anche a un fraseggio di fulminante rapidità. Non ha trascurato la sua trascinante versione di My Favorite Things, con un gran duo sax-batteria. Grande merito della Benjamin è quello di aver riportato al jazz un pubblico più giovane, entusiasmando comunque il pubblico di ogni età con una musica che si riconduce all’area BAM, recuperando le radici blues e gospel (Amazing Grace), il funk, in una operazione davvero valida sotto l’aspetto della politica culturale. A seguire, l’hard bop di qualità del veterano Eddie Henderson, classe 1940, che con un buon quintetto ha omaggiato Woody Shaw, Freddie Hubbard, Monk, Hancock.

Se la performance di Marisa Monte era orientata a un coinvolgimento del pubblico, più intima e suggestiva la proposta di Diana Krall, con la sua voce sempre sensuale e ottima anche come pianista, ben spalleggiata da Sebastian Steinberg al contrabbasso e Matt Chamberlain alla batteria. Canzoni intramontabili come Almost Like Being in Love, I’ve Got You Under My Skin, Do Nothing Till You Hear From Me, They Can’t Take That Away From Me, I’m Confessin’ That I Love You, ma anche omaggi a Fats Waller e Neil Young. Bis sulle note di Take the A Train.

Resta da accennare del concerto della pianista Marta Sanchez. Spagnola, attiva a New York, nel suo set al Museo ha convinto con il suo tocco classico, mostrando padronanza del repertorio pianistico del primo Novecento, impressionista in particolare, improvvisando anche in stile contemporaneo.

Ma la chiusura di questo resoconto non può che essere per il magnifico concerto d’apertura di Sílvia Pérez Cruz (nella foto). Toda la vida, un día, il titolo del suo capolavoro del 2023, che ha portato sulla scena del Kursaal (1800 posti tutto esaurito) con un gruppo composto da Carlos Montfort-violino, Marta Roma-violoncello, Bori Albero-contrabbasso. Uno spettacolo curato nei minimi particolari, dai movimenti in scena alle luci, ai cambi d’abito dell’artista con diversi colori che seguivano lo scorrere del tempo in cinque movimenti, uno per ciascuna tappa dell’esistenza: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia, rinascimento. Canto sublime, poesia (anche con testi di Pessoa), un gruppo coeso e efficacissimo, entusiasmo, gioia di suonare: un concerto indimenticabile, che mi auguro sia stato ripreso in video.

Grande apertura per un festival inappuntabile sotto ogni aspetto: organizzazione, professionalità, livello artistico. Appuntamento a luglio 2025, per l’anniversario numero 60.

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