Slideshow. Luigi Bonafede

Foto: Fabio Ciminiera










Slideshow. Luigi Bonafede.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Luigi Bonafede: Più che del “nuovo” (e qui si aprirebbe subito un discorso dolente che riguarda il 90% dei jazzisti italiani), dato che ha più di tre anni, ti parlo dell’ultimo lavoro che ho fatto. Anche in questo caso, come in tutte le registrazioni che ho fatto dal 1975 ad oggi a nome mio, ho registrato pezzi miei con dei musicisti notevolissimi sotto tutti i punti di vista (sound, swing, padronanza dello strumento e del fraseggio, personalità, profondità) ma che per motivi di carattere, di occasioni, di luogo di nascita, non hanno il riconoscimento che si meriterebbero: Massimo Baldioli (clarinetto e sax tenore e soprano), Andrea Allione (chitarra acustica ed elettrica), Loris Bertot (basso) e Ermanno Facchi (percussioni), io suono sia il piano che la batteria ma senza sovrincidere: mi sono messo alla destra del seggiolino del piano la batteria e passavo da uno strumento all’altro durante lo stesso brano solo girandomi di poco, infatti ho voluto la chitarra, oltre che per le sonorità e per i soli, anche per avere uno strumento armonico quando suonavo la batteria e le percussioni per avere uno strumento ritmico quando suonavo il piano. Il CD si chiama To Advance per la Ultrasound.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


LB: Non saprei, o non ricordo bene, l’ho sempre avuta dentro di me, senza per questo sentirmi un enfant prodige, ero semplicemente un bambino dotato per la musica come tanti altri, infatti ci ho messo tanti anni per scoprirlo e ad accettarlo. Non so se c’entra con la domanda ma da bambino, per fare un esempio, la musica mi commuoveva. Mia madre (da ragazza aveva studiato un po’ pianoforte e le era rimasta questa passione) raccontava che da piccolo, quando lei metteva un disco di musica classica io stavo incantato davanti al giradischi e dirigevo la musica o mi veniva da piangere e che poi, da quando ho cominciato a studiare pianoforte (sei anni), ho smesso di avere delle crisi di nervi che ogni tanto mi venivano.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


LB: Motivi razionali nessuno di preciso, la musica in generale ed il jazz in particolare penso di averli avuti sempre dentro, come ho detto prima, anche perché sono convinto che non puoi diventare quello che non sei ma semmai puoi scoprire e coltivare quello già sei, per cui è l’istinto che mi ha spinto a diventare un musicista. Negli anni mi sono “reso conto” che quando ascoltavo musica e soprattutto quando suonavo mi immergevo mi “assentavo” stavo bene, sicuramente meglio di quando non lo facevo, passavo sempre più ore al piano piuttosto che sui libri (forse anche perché essendo pigro di natura mi veniva più facile suonare che fare altre cose?). Poi con gli anni, quando studiavo piano, passavo sempre più tempo su cose mie (ho scoperto dopo che erano jazz) che su studi o pezzi classici.



JC: E i motivi che riguardano proprio il jazz?


LB: Sul jazz in particolare posso dire che sin da ragazzino ero attratto, per esempio, dai documentari sull’africa : mi piaceva il sound dei tamburi i ritmi incessanti, un certo tipo di combinazioni armoniche molto semplici ma ipnotiche e ripetitive (praticamente era già scattato in me l’amore, che ho poi scoperto e coltivato e che non mi ha più abbandonato, per il jazz modale). Sin da ragazzino, senza un motivo, ho sempre tenuto (nel senso di stare dalla parte di) agli afroamericani (nei film, nel calcio, nella boxe, nella corsa, nella pallacanestro nella musica). Ricordo in proposito (forse facevo le scuole medie) che durante un programma televisivo assistetti ad una “sfida” tra due batteristi e io, nonostante il batterista bianco fosse una star (tra l’altro con una batteria luccicante e strapiena di tamburi e a quell’età certe cose contano) ed invece lo sfidante di colore per me fosse un emerito sconosciuto (aveva una semplice batteria “jazz” con i quattro tamburi) rimasi letteralmente ipnotizzato e affascinato dal suono e dall’approccio inizialmente con le mallets ipnotico e poi con le bacchette poliritmico dell’afroamericano (il bianco era il noto Ginger Baker e il nero, l’ho scoperto diversi anni dopo, era Elvin Jones, il mio batterista preferito: quando è destino). L’ultimo ma determinante aneddoto che mi ha fatto capire che la mia musica era il jazz è stato sempre verso fine scuole medie o primo liceo: la zia di mia madre “lavorava” per la chiesa (io appartengo, anche se non professo, da mia nonna materna alla chiesa protestante-valdese) e di ritorno da un viaggio in America mi regalò una cassetta di Oscar Peterson che le avevano dato (ne io e tanto meno lei sapevamo chi fosse), dopo averla ascoltata ho capito che avrei vissuto per quella “cosa” e grazie a quella “cosa” e non mi riferisco tanto al “mestiere”, anche se poi lo è diventato, ma alla sua essenza. Per spiegarmi cito una frase che dico da tanti anni quando mi chiedono cosa fai nella vita: “lavoro per sopravvivere ma suono per vivere”.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


LB: Più che oggi in generale, direi che per “quelli di oggi” ha sempre meno significato, per me ed ancora di più per quelli prima di me la parola Jazz ha ancora oggi ed avrà sempre un grande significato ma ne avrà sempre meno per quelli di oggi, per i nostri allievi per esempio, più ci si allontana dagli anni d’oro del jazz, più scompaiono i protagonisti che lo hanno inventato più scompare il significato di questa parola, rimangono le scale gli accordi (che tra l’altro c’erano già prima) le scuole i conservatori ma viene meno il mood l’onda l’impressione il transfert lo tsunami che ti arrivava quando ascoltavi dal vivo nei jazz clubs e nei teatri gente come Miles, Rollins, Shorter, Coleman, Baker, Silver, Evans, Tyner, Hancock, Hubbard, Gordon – dai quali trasudava quel qualcosa che volente o nolente ti contagiava ti entrava dentro e si mescolava al tuo dna. Un conto è riprodurlo il jazz altro è viverlo o addirittura esserlo (come appunto i grandi), un conto è studiare le posizioni degli accordi di Evans piuttosto che di Tyner su di un metodo un altra cosa è averli visti e ascoltati a tre metri di distanza… voglio dire che le posizioni degli accordi che usa Tyner in Impressions e quelle che usa Hancock in So What sono le stesse ma hanno due modi completamente diversi di viverli, di pressarli, di esprimerli: per cui il problema non è tanto che cosa fai ma quando e come lo fai, per non parlare del perché lo fai.



JC: Hai in mente altri esempi?


LB: È un po’ come per la II guerra mondiale, per fare un paragone: i soldati l’hanno fatta, i miei nonni l’hanno vissuta, i miei genitori l’hanno subita, io che sono nato a soli nove anni dalla fine della guerra ne ho percepito l’odore e la forte sensazione per lo stato d’animo che mi trasmettevano i miei parenti nel raccontarla. Ma mio nipote non sente neanche questo odore. Non è colpa di nessuno, è così, il jazz e il suo contenuto (come il significato di una poesia di Leopardi) non moriranno mai, ma ha sempre meno significato concreto per quelli che non hanno fatto in tempo a toccare con mano.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


LB: È un sacco di cose e mi sembra in buona parte di averle appena dette. Il jazz in generale è un tipo di musica, melodia, armonia, soprattutto ritmo quindi swing, in senso più profondo è sound, “tiro”, energia e tensione (anche nelle ballads più rarefatte come in My Funny Valentine dal vivo col quintetto di Miles), contatto amore e via dicendo: senza questi ingredienti il jazz è una serie di scale e pattners noiosi per la maggior parte della gente compreso me che ne capisco. Per me il jazz è un virus che se ti prende non ti lascia più (anche a chi non suona), il jazz è un po’ come la fede. Non è razionale non puoi deciderlo ma è lui che ti sceglie. Il jazz, come tutte le cose vere, è onestà, spontaneità, immediatezza, è osare di essere se stessi, il jazz non è usare strategie politiche (all’italiana) non è vestirsi di nuovo ma è essere nuovi o almeno come ho già detto essere se stessi, il jazz non è fare i diversi ma è essere diversi come lo erano Trane-Miles-Evans in Kind of Blue rispetto a comunque dei colossi come Adderley, Chambers, Cobb e Kelly, il jazz per me è come una seduta psicanalitica dove dal suono che ha un musicista e da come e si comporta sul palco si può capire cosa pensa e come si comporta nella vita in generale.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


LB: Io associo il jazz all’Amore alla comprensione alla condivisione alla democrazia allo scambio al dialogo al contatto emotivo, il jazz mi fa pensare alla verità e alla sincerità, non si può barare. Il jazz ha la prerogativa di accomunare persone di età, ceti sociali e razze differenti.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


LB: Sinceramente non so, sicuramente il jazz del presente è sempre più ragionato è sempre più dotto più accademico, è sempre più “imparato” dai libri e nelle scuole e non più nei jazz clubs e dai musicisti, anche il sound di chi suona è sempre più globalizzato in parte “grazie” alla tecnologia. Inevitabilmente, per i motivi che ho spiegato prima, sta perdendo le “pronunce” e il sound originario. Sinceramente per il momento con il presente che c’è non intravedo un grande futuro. Trovo che da un bel po’ di anni il jazz sia stagnante non vedo idee, contrariamente all’innesto di varie culture e provenienze che hanno originato il jazz, si continuano a fare omaggi (alcuni anche belli ed originali) in versione jazzistica a musicisti deceduti o quasi, che per la maggior parte dei casi sono cantautori italiani o stranieri (Battisti, De Andrè, i Beatles, Paoli) ovviamente con tutto il rispetto e la stima sia per i cantautori che per i musicisti che li eseguono in maniera straordinaria.



JC: Ma c’è nell’aria qualcosa di nuovo nel jazz?


LB: Penso che finché non cambiano le cose nel mondo è difficile che decolli qualcosa di nuovo : voglio dire che artisti (grandi e non) ne nasceranno sempre ma secondo me un artista descrive l’aria che tira, traduce in musica o in pittura o in altre forme quello che sente o che vede. Non è un caso che negli anni cinquanta e sessanta ci fossero tante idee ed una grande energia in tutti i campi, perché era un periodo positivo con una grande voglia di rinnovamento di ricostruzione di cercare di dimenticare il dramma e la disperazione della guerra del razzismo. Chiedo scusa per quello che sto per dire e che è ovviamente e volutamente provocatorio ma forse bisogna “augurarsi” una terza guerra mondiale perché si rinnovi per davvero qualcosa.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


LB: Non è facile scegliere: sono molto legato a tutti i miei dischi perché ogni uno di loro nasce da esperienze di vita e rappresentano delle storie personali e differenti, perché ho sempre registrato pezzi miei e quindi come nel caso dei figli dove obiettivamente ce ne può essere uno più bello dell’altro li ami tutti in egual misura. In ogni disco che ho registrato non c’è niente al caso, ho sempre cercato di dare un senso un legame un filo conduttore dal primo all’ultimo pezzo e tra un pezzo e l’altro (nell’alternanza tra una melodia ed un’altra, nel ritmo, nelle tonalità e nei giri armonici, ancor di più nella tensione emotiva che si può creare tra un pezzo e l’altro). E lo stesso faccio nei concerti.



JC: Ma troviamo un tuo disco…


LB: Tra tutti i miei dischi, non è per questo e per forza il più bello, ce n’è uno che mi sento di scegliere perché è stato il “parto” più “impegnativo-faticoso-lungo-doloroso-traumatico”, è il disco dove sono riuscito meglio (secondo me) a creare un legame una dipendenza dal primo pezzo all’ultimo, come nella musica classica, tema conduttore e variazioni (Il primo brano è quello conduttore e in tutti gli altri, pur essendo melodie e giri armonici assolutamente autonomi e differenti, c’è un embrione della melodia o dell’armonia del primo).



JC: E allora spiegaci perché impegnativo-faticoso-lungo-doloroso-traumatico”: partiamo dal primo termine: impegnativo?


LB: “Impegnativo” perché il gruppo era formato oltre che da me al piano da contrabbbasso, batteria, cantante, tromba, sax (flauto-tenore-soprano), violoncello e violino (che poi diversi anni dopo, prima che uscisse, ho raddoppiato con un altro violino, cello e contrabbasso), impegnativo perch<è ho messo tanti mesi a comporlo e poi ad arrangiarlo dove le parti scritte erano più di quelle improvvisate ed erano calcolate per creare delle tensioni emotive tali da "suggerire" per reazione un solo piuttosto che un altro.


JC: Faticoso?


LB: Faticoso perché solo chi fa la nostra professione sa cosa vuol dire organizzare le prove e poi, se ci si riesce, stabilire una data che vada bene a otto musicisti.



JC: Lungo?


LB: Lungo perché l’ho concepito verso la metà degli anni ’80 ed è uscito verso la metà degli anni ’90 subendo vicissitudini di ogni genere.



JC: Doloroso?


LB: Doloroso perché è nato, soprattutto la prima melodia che è quella conduttrice, dalla storia d’amore più importante (col senno di poi) che ho avuto e che ho lentamente portato io stesso alla fine senza ancora oggi aver capito perché.



JC: Traumatico?


LB: Traumatico perché la prima data che feci appena il gruppo fu pronto fu quella al Capolinea, dove io ero di casa. Fu un concerto veramente strepitoso (ma non tanto perché lo dico io) con applausi a scena aperta, musicisti che si congratulavano per i pezzi e per gli arrangiamenti, gente che veniva commossa a fare i complimenti e così via.



JC: E poi cos’è successo?


LB: Qualche tempo dopo uscì la recensione del concerto (allora i critici mi venivano ad ascoltare e mi recensivano) dell’allora direttore di musica jazz Pino Candini che era presente al concerto dove ha liquidato tutto quel lavoro con la frase – se non ricordo male “gruppo raffazzonato all’ultimo momento” – solo perché, almeno credo, all’ultimo momento ho dovuto sostituire la trombettista in carica Iliaria Kramer con Flavio Boltro (che tra l’altro ha fatto diventare il concerto ancora più bello). Candini (e mi spiace parlare tanto più male degli assenti) che evidentemente non ha recepito niente o non era in grado di capire quello che avevo messo in piedi, l’unica cosa che ha notato di quasi un anno di lavoro, tra comporre e provare, è stato la sostituzione di un elemento.



JC: Come hai reagito?


LB: Avrei accettato, anche se con dispiacere, qualunque altra critica… non mi è piaciuto, è scontato, troppo lungo, non è originale, musicisti scadenti e via dicendo… ma “raffazzonato” no (se all’epoca l’avessero scritto Rava, Trovesi o Gaslini sarebbe stata definita l’opera del secolo). Per me è stato un trauma, ho provato un forte senso di desolazione e di amarezza per tanti anni, forse non avevo ancora la corazza che ho oggi, da quel giorno non ho più comprato ne musica jazz ne altri giornali “specializzati” e ho chiuso con tutti i giornalisti dell’epoca, ho continuato e continuo a suonare ma senza più tener conto degli addetti ai lavori, infatti, te lo dico per onestà, quando ho ricevuto le tua richiesta di intervista sono stato indeciso se accettare, poi però mi son detto per essere coerente con tutto quello che ho detto e che dirò, che non sarebbe stato giusto nei tuoi confronti fare di tutta una erba un fascio.



JC: Parliamo di qualcosa di assai meno traumatico: quali sono i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


LB: Come credo di aver già fatto capire con le cose che ho detto fino ad ora faccio fatica a separare la musica dalla vita e dalla cultura (non nel senso formale delle rispettive parole ma in quello spirituale e profondo). Voglio dire che Gesù Cristo avrebbe suonato per come predicava o Trane avrebbe predicato per come suonava o Hesse come scriveva o Van Gogh come dipingeva o Ravel o Debussy come componevano e via elencando. Per me un musicista suona come è, come vive, come pensa, come si comporta, quindi maestri di musica/vita/cultura ne ho avuti tanti ma (per un ordine naturale e cronologico più che di importanza) dopo i miei genitori e la fede (non sono un religioso e tanto meno un osservante, non amo le chiese e non ci vado ci non vado quasi mai, ma sono un credente con tanti dubbi ed incertezze) il primo a cui penso con il quale ho passato i primi e migliori anni della mia vita artistica, insieme a Lucio Terzano (ci chiamavano le tre L) e poi, anche se in maniera diversa, insieme a Paolo Pellegatti, è stato Larry Nocella.



JC: Ma c’è qualche jazzman che a sentirlo ti ha cambiato la vita?


LB: Colui che mi ha prima scombussolato l’esistenza in maniera totale e poi ha dato il via alla mia lenta ma continua “trasformazione” è stato John Coltrane: io di Trane non so granché, non ho i suoi soli scritti non conosco tutti i suoi pezzi non ho letto tutti i libri che parlano di lui anzi. Io più che suonare Trane amo Trane, l’ho ascoltato talmente tanto da conoscere la sua disperazione la sua spiritualità la sua accoglienza il suo suono che io definisco appunto accogliente e materno perché, come quello di tua madre, è unico e riconoscibile in mezzo a mille altre voci, lo stesso vale per McCoy Tyner al quale i critici, se scrivessero ancora oggi di me, mi abbinerebbero.



JC: In che senso ti “abbinerebbero” a McCoy Tyner?


LB: Io amo Tyner, per una inclinazione naturale (perché alcuni dei pezzi che suono ancora oggi definiti alla McCoy li ho scritti prima di sapere che esistesse), perché l’ho ascoltato tantissimo ma non l’ho mai studiato, non so i suoi soli e via dicendo. Ho dei colleghi pianisti che sanno molto più di me su Tyner e lo sanno clonare ma non è la stessa cosa, sia Trane che Tyner, come tutte le cose importanti della mia vita, sono sempre dentro di me anche se non li penso o non li ascolto, ho più volte ho dedicato dei concerti a Tyner ma soprattutto perché è vivo. E mi auguro che quando ci lascerà, il più tardi possibile, non mi telefoni qualche critico dopo vent’anni che non si fa vivo per chiedermi di commemorarlo perché mi offenderebbe due volte, una perché penserebbe a me solo in relazione a McCoy e non a come sono io o a come e cosa suono e compongo io e l’altro perché non userei mai la morte di Tyner per la mia visibilità o per la mia “carriera” (cosa che succede sempre più spesso).



JC: E dopo Tyner e Coltrane?


LB: Ovviamente oltre Trane, e in egual misura Tyner/Garrison/Jones, di maestri di musica ne ho diversi, ognuno per la sua peculiarità ed essenza: Ellington, Parker, Miles insieme a Shorter, Hancock, Carter e Williams, Rollins, Monk, Mingus, i due Evans…



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


LB: Non l’ho mai considerata una carriera ma il modo più naturale di vivere per il mio dna, al di là dei risultati che avrei ottenuto. Cito solo alcuni forse i più importanti o quelli che mi hanno lasciato un segno: uno fu quando fui segnalato da Giorgio Vanni, gestore dell’allora noto jazz club “Il Capolinea” di Milano, alla casa discografica Ariston (che cercava giovani talenti di jazz) per registrare il mio primo LP nel ’75 o ’76. Un altro è stato quando fui chiamato nell’84 ad Umbria jazz e alla Grand Parade du Jazz a Nizza come leader con il Five For Jazz (con Massimo Urbani, Pietro Tonolo, io, Piero Leveratto e Paolo Pellegatti). Un altro ancora fu quando durante una registrazione a nome di Fasoli con ospite Pat LaBarbera dove Pat riascoltava il suo pezzo appena registrato e mi disse che gli era piaciuto di più il mio solo e che invece avrebbe rifatto il suo. Ovviamente, a parte la gratificazione, quello che mi colpì è che un personaggio che aveva suonato con mezzo mondo e in quel periodo era con il mio idolo Elvin Jones mi ascoltasse e potesse prendere spunto da un giovane inesperto quale ero, lo stesso mi successe con Tony Scott.



JC: Non c’è il due senza il tre e il quattro vien da sé…


LB: Fu quando è mi telefonò Petrucciani in persona, che non avevo mai conosciuto personalmente, per propormi di andare a Parigi a registrare per la Dreyfus Music come batterista insieme ad Del Frà e Franck Avitabile al piano (suo pupillo) ed ancora di più quando mi riferirono che in una intervista aveva parlato molto bene di me come batterista e che avrebbe voluto prima o poi chiamarmi a suonare con lui.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


LB: Alcuni dei musicisti con cui amo collaborare ancora oggi, sia che il progetto sia mio o loro, appartengono anche al mio passato come Pietro Tonolo con cui ho eseguito qualche anno fa diversi concerti in duo e poi registrato per la Obliq Sound di New York, sempre con Pietro ma a nome di Lucio Terzano (l’amico di sempre e il primo jazzista che ho conosciuto) oltre a Paolo Birro, per tornare a felici e piacevoli collaborazioni, abbiamo registrato tre bellissimi cd (io suono la batteria), poi Francesco Sotgiu (del quale non riesco più a fare a meno), Flavio Boltro, Riccardo Zegna, Aldo Mella, Claudio Fasoli, Marco Vaggi, Roberto Rossi, Enzo Zirilli…



JC: Mi sembra gente importante…


LB: Comunque in generale amo collaborare con musicisti intelligenti che “cercano” senza sentirsi per forza degli innovatori e quindi senza l’ansia di essere originali a tutti i costi, che antepongono la musica all’ego, che non si autocontemplano, che non cercano il consenso ma semmai la condivisione, che non giocano a fare i musicisti come un bambino gioca al dottore, che non hanno un look da artisti, che non danno per scontato mai niente, che ti ascoltano ogni volta come fosse la prima e quindi che suonano e costruiscono al momento, lì con te, la musica.



JC: E oggi con chi lavori?


LB: Attualmente sto collaborando con dei super musicisti, alcuni li conosco da una vita altri li frequento da una decina di anni, che per motivi vari (carattere e filosofia di vita) non sono annoverati tra i “big” del jazz italiano, come del resto io, ma che sotto tutti fronti non hanno nulla da invidiare a nessuno: Roberto Regis (alto e soprano), Loris Bertot (basso), Andrea Allione (chitarra), Massimo Baldioli (sassofonista di formazione classica diplomato in clarinetto poi in sassofono e docente al conservatorio di Aosta ma jazzista tra i migliori che io abbia mai conosciuto), Alfonso Domenici (alto e soprano), Alex Cristilli (batterista).



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


LB: Ho alcune cose in testa e cercherò, come ho sempre fatto, di realizzarle anche se le difficoltà (economiche) a registrare ed ancora di più a trovare concerti spesso fanno durare i progetti molto poco o a volte non li fanno realizzare del tutto. Uno è che sto cercando di trovare il modo di registrare dei pezzi che ho scritto in quartetto con Larry Schneider (persona e sassofonista davvero speciale), un altro lavoro di pezzi sempre originali che stò mettendo in piedi è in trio, un altro ancora è in quintetto con Leora Cashe (cantante canadese).