Philology – 2011
Massimo Urbani: sax alto
Alessandro Bonanno: piano
Piero Sallusti: contrabbasso
Ettore Fioravanti: batteria
Maurizio Urbani: sax tenore
Già i credits metterebbero, se non sull’attenti, almeno sul chi vive: è ormai di consolidato carisma l’astro precocemente estinto di Massimo Urbani, trionfatore atipico dei pur movimentatissimi anni ’70 (e chi scrive può testimoniare di una tonicissima performance del suo quintetto giusto alla fine di quel decennio, che funse da supporter “alla pari” del successivo quartetto di superstar afro-americane).
Ulteriore valore aggiunto può essere rappresentato (seppur in via piacevolmente anacronistica) dal trovarsi di una registrazione con carattere di bootleg, non essendo peraltro specificata la fonte, che comunque testimonia i felici esiti di una “normale” serata in un localino romano, nella cui session la presenza di Urbani apportò evidenti vigoria e calore.
Assimilato, senza poi radicale esagerazione, alla figura di Charlie “Bird” Parker, con cui condivise la musicalità possente ma anche il disagio e l’autodistruttiva sregolatezza, Urbani affiancò ottimamente almeno i maggiori protagonisti dell’epoca (Schiano, Gaslini, il Rava delle incursioni USA) consolidando la propria credibilità nella discografia, scandita almeno in una decina di titoli, ma soprattutto per l’impressionante presenza profusa nelle avventure live, e di cui questa incisione appare pertinente testimonianza.
Documento crudo, privo di miracoli di editing (e che certo potrà tenere alla larga gli audiofili puri – per il poco che la cosa possa valere), la serata riporta la grande forma di una band d’impegno, che vantava l’ operoso piano di Alessandro Bonanno, le solide parti basse di Pino Sallusti e il drumming fitto e incisivo di un evidentemente giovanissimo Ettore Fioravanti, ma in base a quanto percepibile tutti incanalati nel flusso espressivo potente di Urbani, di cui le sei tracks palesano le asperità stilistiche (che fanno però corpo unico con la partecipazione e l’emissione di getto e poco filtrata), fuoriuscenti nelle tensioni laceranti e breathless che pervadono e dominano tutto lo sviluppo della toccante Lover Man o come il mood latino d’apertura di Invitation sia poi stemperato e drammatizzato nel teso e vertiginoso solo conclusivo.
Seppure il clima generale dell’incisione potrà rendere in parte ragione degli elementi della grande crisi di gradimento di quegli anni verso il jazz canonico, come si può ricordare, che portò all’apertura del grande, e comunque operoso, fronte della fusion, quel manierismo espressivo che probabilmente attraversò trasversalmente l’epoca trova qui un esempio salutarmente contraddittorio di come una singola voce, con il coraggio di mostrarsi cruda fino all’allucinato e senza pelle, potesse opporre validi punti di forza e segnare una differenza.