Intervista a Ohad Talmor

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Intervista a Ohad Talmor.

In collaborazione con Scuola di Musica Thelonious Monk, Mira (theloniousmonk.it) e JAM – Jazz a Mira (jazzamira.it).

Ohad Talmor fa parte della generazione dei quarantenni della nuova scena newyorchese: il sassofonista si confronta con le necessità espressive dell’improvvisazione con uno sguardo che abbraccia le avanguardie, le nuove generazioni e maestro come Lee Konitz o Steve Swallow ed Adam Nussbaum, con i quali ha registrato Playing in Traffic. Infine, la sua storia personale: cresciuto in Svizzera, in una famiglia di origini israeliane, risiede a Brooklyn da diversi anni. In Europa, è più precisamente in Italia, pubblica i suoi lavori: sia Playing in Traffic che il recente Newsreel sono usciti per la Auand Records.



Jazz Convention: Cominciamo con la genesi del progetto Newsreel: ci puoi dire come hai scelto i musicisti, gli strumenti che hai voluto coinvolgere, le ispirazioni che ti hanno guidato?


Ohad Talmor: Ho incontrato i musicisti di Newsreel in periodi diversi della mia carriera e attraverso diverse situazioni musicali: ho frequentato la Manhattan School of Music con Dan Weiss e Jacob Sacks – due dei miei amici più stretti e di più antica data qui a New York. Con Matt Pavolka ho fatto un tour europeo nel 2002 come sideman e ho amato sin da allora la sua musica e il suo modo di suonare. Shane Endsley è venuto a New York qualche tempo dopo, ma altri musicisti mi avevano parlato di lui come un talento straordinario che suonava tromba e batteria, e come un dato di fatto, quando abbiamo suonato insieme, Shane era suonare la batteria! Ma il suo modo di suonare la tromba e in generale la sua musicalità sono davvero preziose per me. Per quanto riguarda la composizione del gruppo, volevo avere una line-up flessibile che potesse affrontare qualunque musica scriverssi, mantenendo un suono abbastanza orchestrale ed essendo abbastanza piccola per consentire la maggiore interazione possibile. Quindi, il quintetto mi è sembrata la formazione ideale per molti versi ed è presente in moltissima parte della musica che ho sentito mentre crescevo e che ho studiato: possiamo partire dai vari quintetti di Miles Davis, ma la lista è lunga.



JC: La varietà delle influenze è uno degli aspetti più interessanti del disco: si tratta di un vero e proprio viaggio dall’India a New York attraverso il Medio Oriente, Europa, tradizioni jazz… come hai lavorare per tenere insieme tutti questi elementi?


OT: Sì, la varietà è la firma di questo particolare lavoro. Tutte queste “influenze” sono parte integrante della mia giornaliera costruzione musicale e rispondono al mondo sonoro in cui vivo tutti i giorni: un mondo sfaccettato da prendere in considerazione e studiare con un impegno profondo e grande rispetto. Sono cresciuto suonando pianoforte classico – ho finito il Conservatorio di Ginevra con un diploma di pianoforte – in una famiglia ebrea di origini israeliane, anche se poi in realtà le mie radici sono un po’ più complicate. Suono il bansuri – un tipo di flauto indiano in bambù – e studio da dieci anni la musica classica dell’India del Nord. Ma allo stesso tempo, ho avuto il privilegio di avere Lee Konitz come mentore nel mondo del jazz e, infine, vivo e respiro tutta la ricchezza musicale e la diversità culturale della città di New York. Tutto ciò contribuisce a quello che io sono musicalmente e volevo che il primo album di Newsreel riflettesse fortemente questo.



JC: Parliamo anche sull’utilizzo delle voci del presidente Obama, Martin Luther King e di altri personaggi storici.


OT: La traccia che combina discorsi di personaggi diversi e altri estratti audio dalla vita quotidiana americana porta con sè i riflessi del mio lavoro nei “radio-dramma” in cui sono stato coinvolto per alcuni anni: ho scritto la musica per molti racconti diversi. L’idea di questo particolare brano non è tanto quello di esprimere un messaggio politico, quanto di rivestire la musica di un peso emotivo più profondo, peso proveniente dal confronto con questo mosaico di brani audio e, più importante, di utilizzarli come elementi strutturali per la composizione. Naturalmente, le voci di Barack Obama, George W. Bush o di Martin Luther King, intervallate dalla musica, diventano “colori” per la nostra percezione dei brani e forse portano l’ascoltatore a porsi alcune domande…



JC: In Newsreel sono presenti alcuni dei musicisti più creativi della nuova scena jazz di New York. Avevate già suonato insieme prima? Come hai lavorato per creare una squadra da questo gruppo di interpreti?


OT: Con i musicisti di Newsreel ci sono amicizie personali di vecchia data, profonde e radicate. Suoniamo spesso con gli uni con gli altri in una varietà di formazioni al di fuori di Newsreel e questo si riflette molto nelle nostre rispettive identità musicali. La volontà, formidabile, con cui questi ragazzi abbracciano la musica nel suo complesso, senza riferimento ad un particolare stile o genere, è una grande fonte di ispirazione per me. E questo risulta evidente nella loro padronanza di un vocabolario molto esteso. Di conseguenza posso concepire la musica di Newsreel all’interno di un ampio spettro espressivo. Non c’è stato nessun tentativo reale di “creare” una squadra a parte la totale fiducia nella musicalità di ciascuno e nel lasciare che le cose procedessero in maniera autonoma. Lavorare insieme è come suonassimo ogni volta per la prima volta – manteniamo la stessa freschezza e questo può venire solo dall’equilibrio tra la fiducia negli altri e la fiducia in te stesso.



JC: L’altro disco che avevi pubblicato per Auand era Playing in Traffic, con due jazzisti creativi, solidi e molto conosciuti come Steve Swallow e Adam Nussbaum.


OT: Questo trio è nato in maniera naturale. Avevo lavorato a lungo con Steve nel sestetto che avevamo guidato insieme e che aveva pubblicato L’histoire du Clochard per la Palmetto Records. e ho lavorato con Adam in diverse gruppi e big band in Europa. Dal momento che Steve e Adam collaborano da moltissimo tempo, è stato naturale per noi cercare di lavorare come trio. Ognuno contribuisce al repertorio più o meno allo stesso modo e di conseguenza nella nostra musica si riflettono accenti musicali diversi. Un fattore essenziale per lo sviluppo del nostro trio è il particolare incrocio generazionale (io sono più giovane di 15 anni rispetto ad Adam e, a sua volta, Adam è più giovane di 15 rispetto a Steve) ma nonostante questo gap ci “riconosciamo” musicalmente e riusciamo a far passare la nostra musica in maniera fluida e senza frizioni tra le diverse idee presenti al suo interno.



JC: Il trio composto da sassofono, basso e batteria è una formazione molto aperta, ma anche molto impegnativa per il sassofonista…


OT: Esattamente! È molto impegnativo e richiede ai componenti del trio una profonda fiducia reciproca e di mettere i rispettivi ego in secondo piano. Sei certamente più esposto quando suoni in un contesto simile, ma questo ti permette anche di puntare dritto a ciò che è essenziale o “vero”, obiettivo davvero caro a ciascuno di noi tre. Condividiamo l’atteggiamento di lasciare andare la musica dove deve andare, senza soccombere alle norme o ad un approccio convenzionale: certo, non puntiamo nella direzione più “commerciale”, ma verso quella che suona vera alle nostre rispettive musicalità.



JC: Playing in Traffic è caratterizzato da un interplay profondo, da sostegno e ascolto reciproci, da tre voci connesse in maniera molto stretta…


OT: Senz’altro! Siamo improvvisatori e come tali dobbiamo prima di tutto ascoltare. Lo stesso accade in Newsreel, sebbene il fatto di avere un repertorio più composto e strutturato fa passare in secondo piano questo aspetto. In entrambi i progetti, la profonda interazione, l’interazione e l’enfasi sull’ascolto, il tenersi lontano dai clichés sono gli aspetti che determinano la natura della musica. Si tratta di un modo più rischioso di procedere, non sempre porta buoni frutti, ma alle mie orecchie è l’unica maniera che permette alla musica di accadere.



JC: Sia Playing in Traffic e Newsreel sono caratterizzati da un flusso musicale continuo: nel primo ci sono le tracce denominate “in”, nel più recente hai utilizzato le voci registrate per mantenere sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore.


OT: Sono d’accordo. Una buona parte della mia produzione musicale consiste nel comporre o organizzare materiale per orchestre di diverse dimensioni, queste componenti orchestrali e strutturali sono parte integrante della mia concezione globale della musica e si manifesta in tutte le direzioni sia quando scrivo per piccoli gruppi che quando improvviso.



JC: Da quando sei arrivato a New York, hai suonato con musicisti diversi per generazione e, di conseguenza, per intenzioni musicali. Un risultato è la tua apertura stilistica, un altro è che nei tuoi dischi si possono incontrare molte diverse atmosfere musicali, l’ultimo è il numero enorme di collaborazioni che hai avviato.


OT: Bene, questo è uno dei privilegi di vivere a New York, ma credo che rispetti anche la mia traiettoria personale e musicale. La nostra personalità è disegnata dalle scelte che facciamo e, in questo senso, ho deciso molto tempo fa di non cedere alla “via più facile”. Non c’è modo migliore per crescere che confrontarsi – onestamente e senza paura o ego – con quante più informazioni possibile e imparare dalle persone migliori di noi. Siccome questi sono i miei punti di riferimento, sono felice che si veda in qualche modo nella mia musica un riflesso delle scelte che faccio ogni giorno.



JC: Puoi raccontarci qualcosa del tuo rapporto musicale con un grande maestro come Lee Konitz?


OT: Lee è un mio amico, è il mio mentore. Era lì, nei primissimi giorni della mia carriera di sassofonista, 23 anni fa. Lui mi ha preso sotto la sua ala e nel suo modo molto speciale, mi ha condotto fino a diventare un vero musicista. Egli, più di chiunque altro conosca, privilegia la vera improvvisazione, senza convenzioni o luoghi comuni. Egli cerca di rendere ogni singola nota suonata fondamentale. Continuo ancora ad imparare da lui: mi sento molto fortunato, soprattutto in un momento in cui si impara la musica per lo più nelle scuole, ad aver imparato questa musica come veniva originariamente insegnata, cioè mostrata da un Maestro, come Lee, suonando con lui per davvero e vivendo quest’esperienza profonda



JC: I tuoi dischi vengono pubblicati in Italia e nel mondo dalla Auand di Marco Valente. Qual è la tua opinione sulle etichette, sulle etichette indipendenti, sulle auto-produzioni e così via.


OT: In primo luogo, Auand è la migliore etichetta che conosco. Anche se la mia esperienza è forse limitata, non ho sentito parlare di un’etichetta che fornisce un tale supporto ai musicisti in cui crede. Posso garantire che Marco non è assolutamente in cerca di soldi nella sua avventura con l’etichetta discografica, si tratta di un percorso dettato per lo più dal suo amore per la musica e questo lo guida nel suo rapporto con noi. Ha appena festeggiato i dieci anni dell’Auand con un festival di cinque in diversi locali di New York con molti dei “suoi” musicisti italiani ed è stato un vero successo. Per quanto riguarda l’autoproduzione, penso che sia ormai una realtà per la maggioranza delle persone che lavorano nella musica. In meno di dieci anni, il panorama musicale è completamente cambiato e non sono sicuro che ci sia qualcuno che abbia una qualche idea di cosa accadrà in futuro. Da una parte questo offre maggiore libertà e controllo sulla propria musica e relativamente a buon mercato. Dall’altra parte, ha portato a una proliferazione enorme di pubblicazioni. Chiunque abbia un software sul proprio computer può in pochi giorni pubblicare una registrazione di buon livello, una cosa impensabile solo pochi anni fa, senza passare da uno studio e senza spendere un sacco di soldi. Questo forse incide sulla qualità generale della musica pubblicata, ma solo il tempo potrà dire quali saranno i risultati veri.