Foto: Copertina del volume
Giancarlo Schiaffini: E non chiamatelo jazz.
Auditorium Edizioni – 2011.
Giancarlo Schiaffini mette in chiaro direttamente dal titolo il tono del suo libro. E non chiamatelo jazz è un volume spiazzante, centrato sulla pratica e sul modo di interpretare l’improvvisazione: il gioco è duplice e mette in luce sia la debolezza delle definizioni che la presenza anche in altri generi di musica eseguita in maniera non preventivata in precedenza.
Se il jazz ha restituito dignità e valore all’improvvisazione nel novecento, naturalmente questa non è nata nè con l’uno né con l’altro. La maggior parte dei grandi musicisti classici utilizzava l’improvvisazione nei propri concerti e la musica popolare – dai trovatori al blues, dai raga indiani alle poliritmie africane – contiene elementi improvvisativi disposti in maniera differente a seconda dei casi. Schiaffini affronta in maniera partecipe e schematica le maniere di vivere l’improvvisazione totale – collettiva, solitaria, informale tradizionale – nei vari contesti idiomatici, con esempi, riferimenti precisi e vissuti in prima persona, problematiche di contenuto e stile. La differenza tra i vari risultati è conseguenza naturale delle intenzioni dei musicisti coinvolti: la pratica della composizione, l’equilibrio tra esecuzione e scrittura, la “grammatica” linguistica ed espressiva dei vari interpreti.
Il dialogo e, più in generale, l’interazione tra i muisicsti in scena è un ulteriore elemento che determina l’improvvisazione. E Schiaffini ha collaborato con una gamma di musicisti tanto vasta da essere quasi incredibile. Da John Cage, Luigi Nono e Karl-Heinz Stockhausen a Thurston Moore dei Sonic Youth, passando naturalmente per tutti i musicisti che hanno messo al centro della propria ricerca l’intenzione di scavalcare il limite del consolidato e del consueto. E quindi gli olandesi – Misha Mengelberg e Han Bennink, su tutti – e le avanguardie europee – da Derek Bailey ad Alex Von Schlippenbach – e tutte le diverse stagioni dell’improvvisazione radicale in Italia, dagli anni ’60 ai giorni nostri.
Lo spunto per introdurre l’altro grande argomento del libro, lo cogliamo da una battuta di Schiaffini. “L’Improvvisazione è quella che ha demolito schemi, strutture e gerarchie tradizionali e non vogliamo ridurla a una serie di nuove convenzioni tassative”. In realtà il problema delle definizioni e degli schemi con cui parlare di musica, in generale, e, in particolare, di jazz e improvvisazione, l’autore lo solleva sin dal titolo e lo ribadisce nell’introduzione e nei primi capitoli. Spesso – e, come è ovvio, in maniera non esaustiva, se non addirittura errata – si definisce il jazz come musica basata sull’improvvisazione. Tanto jazz è scritto con rigore e molti ensemble rispettano con attenzione partiture e concetti formali, pur rimanendo in pieno nell’ambito del jazz. Per non parlare poi di assolo costruiti sull’imprinting e sulla memoria collettiva o, ancor peggio, sui pattern, soluzioni già pronte ricavate dalle trascrizioni delle improvvisazioni dei grandi maestri del jazz.
Il jazz paga la sua capacità di entrare in contatto e assimilare tanti materiali diversi anche con l’impossibilità di una definizione rigorosa. Il titolo, E non chiamatelo jazz, sgancia il mondo dell’improvvisazione radicale da una parentela esclusiva con il jazz ma pone l’accento anche sulla difficoltà di utilizzare definizioni stringenti, con il rischio di lasciarsi così alle spalle troppi ambiti di manovra.
Se si prosegue nel ragionamento, anche la definizione stessa di improvvisazione diventa meno netta e rivela peculiarità specifiche a seconda dei casi. Schiaffini analizza, caso per caso, le interazioni tra scrittura e “ispirazione del momento” sfruttate da compositori e interpreti nel novecento: alea, griglie espressive, preparazione di strumenti, casualità e rumori non controllati. Schiaffini evita con disinvoltura il rischio di rimanere nell’indeterminato con l’utilizzo di esempi pratici ed esperienze vissute ma anche ricorrendo, quando serve e con senso della misura, a una terminologia più scientifica e rigorosa. Il libro è animato, inoltre, dall’ironia e dalla passione dell’autore, elementi presenti nella scrittura e utili per dare corpo e anima al volume.
Ironia, una felice capacità di sintesi e spiegazioni puntuali rientrano nelle sezioni complementari del libro. La discografia suddivisa per formazioni e ragionata con brevi cenni storiografici. Una galleria di ritratti brevi ed eccentrici dei personaggi con cui Schiaffini ha condiviso momenti importanti della carriera costituiscono la sezione Incontri. Oltre ai tanti personaggi già citati, vi si ritrovano Pino Minafra, Giacinto Scelsi ed Evan Parker, Silvia Schiavoni, Vinko Globokar, Mario Schiano e altri ancora. L’apparato fotografico costituito da scatti di Roberto Masotti, Luca D’Agostino, Luciano Rossetti segue i quarant’anni di carriera del trombonista e, soprattutto, mette in evidenza le evoluzioni – fisiche, ambientali, scenografiche – del jazz e delle sue avanguardie. Infine, l’esempio pratico, il “diario di bordo” di Con spaventata passione, conduction tenuta da Schiaffini nella primavera del 2011 a Ferrara: annotazioni, spiegazioni, intenzioni e strumenti per poterle realizzare, portate all’attenzione del lettore, insieme al link – presente nel libro – per poter ascoltare la registrazione della musica prodotta da un ensemble ampio e transgenerazionale, formato da tredici elementi, oltre al direttore, e aperto alla presenza di musicisti, artisti multimediali e voce recitante.