Miles Davis vent’anni dopo

Foto: copertina del cofanetto










Miles Davis vent’anni dopo.



Il 28 settembre scorso erano vent’anni dalla morte di Miles Davis, forse il più originale musicista che la centenaria storia del jazz americano abbia mai espresso, personaggio fondamentale per tutto il cammino della black music (e forse anche di quella contemporanea tout court) nel secondo Novecento.


Miles Dewey Davis III (Alton 1926 – Santa Monica 1991) fra le numerose innovazioni perpetuate, nel corso di una carriera durata mezzo secolo, resta soprattutto una figura-chiave per l’affermazione del cosiddetto rock-jazz, ovvero il primo serio tentativo di avvicinare due mondi fino allora ritenuti incompatibili o inconciliabili come appunto il rock giovane appena sedicenne e il jazz ormai vecchio di cinquant’anni (discograficamente parlando).


Quale il miglior modo per onorare la memoria e soprattutto la musica del cosiddetto “Divino? Oltre leggere due recenti saggi critici redatti da italiani (Miles Davis il principe delle tenebre e Miles Davis il sound del futuro) o Miles la celebre autobiografia più volte riedita, basterebbe riascoltare i dischi registrati ufficialmente a suo nome tra il 1949 e il 1991 per etichette quali Capitol, Blue Note, Prestige, Columbia e Warner; le prime uscite in LP, proprio da vent’anni in qua, vengono più volte ristampate su CD con bonus, extra, addenda, che favoriscono ulteriori conoscenze dell’opera davisiana; lo stesso si può dire dei filmati dei concerti, prima su VHS oggi in DVD, per rivedere il trombettista nell’atto performativo, con una presenza scenica sempre più divistica.


Tuttavia oltre i CD classici – che ora godono pure di un revival nel format originario del vinile a 33 giri – ora vengono altresì in aiuto diversi poderosi cofanetti: tra gli ultimissimi anzitutto quello recensito sul numero scorso da Andrea Trevaini: il quadruplo CD/DVD Live In Europe 1967 è il primo volume nella collana The Bootleg Series per la Sony Legacy che intende tirar fuori dagli archivi “nuova” bellissima musica del periodo CBS durato quasi un ventennio (tra i contratti più longevi per un musicista con una major).


Ma ci sono poi altri due poderosi cofanetti che vanno a coprire altrettanti significativi periodi, rispettivamente il primo e l’ultimo nella carriera di Miles: da un lato Miles Davis The Complete Recordings 1945-1960 36 Cd della tedesca Membran; dall’altro Miles! The Definitive Davis At Montreux DVD Collection 1973-1991 dieci concerti filmati proposti dalla Eagle Vision in collaborazione con il notissimo festival svizzero. Si tratta di prodotti molto ben confezionati dal punto di vista del packaging e che musicalmente presentano diverse affinità fra loro: entrambe le nerborute antologie sono anzitutto lontane ed equidistanti dal periodo mediano del trombettista, ossia quello riguardante gli anni Sessanta e primi Settanta.


Intanto per la prima volta, con il box di 36 CD, viene radunata in un solo colpo l’opera omnia fonografica ufficiale dal debutto all’anno in cui scadono i diritti d’esclusiva per le case discografiche. Anche per l’altro “scatolone”, i 10 DVD riuniscono per intero tutte le performance del Divino in quella grande kermesse elvetica che lo vede di seguito protagonista per quasi tutti gli Eighties.


Cos’hanno allora in comune il primo e l’ultimo Miles? Il giovane prestato al bebop, poi inventore del cool e del modale, passato attraverso un personalissimo hard bop? E l’anziano trombettista in pacchiani abiti giovanili che dal vivo, dopo aver fatto sfracelli con il funk elettronico, non va oltre un comodo neo mainstream di stile pop-jazz? Hanno in comune il rifiuto verso ciò che Davis va autorevolmente facendo negli anni Sessanta e Settanta, grosso modo tra Kind Of Blue e On The Corner, prima in quintetto, poi con i ben più affollati gruppi hippies: si tratta di un jazz difficile, ma con questo anche piacevole, tant’è che il Miles suddetto tra gli anni Sessanta e Settanta è il jazzman concertista meglio pagato di tutti, segno che dal vivo interessava ancora a una élite molto allargata e danarosa. Il jazz creato sulle scale musicali, provato con Bill Evans e John Coltrane, poi si spinge in una dimensione sempre più informale, grazie all’apporto dei giovani Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Williams, fino all’ingresso degli strumenti elettrificati con Joe Zawinul, Chick Corea, John McLaughlin, Dave Holland e tanti altri. Il jazz di Davis dal 1960 al 1975, che, va ripetuto, transita dal modale al rock, è quasi free nel senso di libero o svincolato da regole di armonia, timbro, melodia, arrangiamento, composizione che scandiscono invece il jazz milesiano sia precedente sia successivo.


La libertà a cui giunge il trombettista (che in quegli anni a parole dice di detestare il free jazz, per ascoltare invece, con sommo interesse, Jimi Hendrix, James Brown e Karlheinz Stockhausen) diventa tale solo con l’apertura alla musica rock: quest’ultima scandita dal ritmo binario, da nuovi strumenti, dal basso ossessivo, dai volumi potenti, dai toni altissimi, consente al geniale Davis di librarsi oltre le forme e le strutture del singolo brano pensato come tema più variazione.


Ma c’è appunto un prima e un dopo: e in quei 36 CD riuniti in un comodo quadrato di cartone che però non rende giustizia all’immagine del trombettista (si è scelta una foto dell’ultimo periodo in posa da teddy boy, forse per compiacere i gusti dei giovani, quando in realtà si tratta quasi di musica classica americana), c’è davvero la storia di un quindicennio favoloso dove un ventenne di provincia si fa le ossa in gruppi r’n’b per spiccare il volo, non caso prima con Bird (genio del bebop) poi da solo; dei 34 CD quasi metà riguardano i primi microsolco a 78 giri ripartiti nelle due sezioni tra Early Miles e The Charlie Parker Years, mentre la terza Original Albums, comprende almeno dieci capolavori: Dig, Cookin’, Miles Ahead, Milestone, Sketches Of Spain, Porgy And Bess, Bags Groove, Jazz At The Plaza, Ascenseur pour l’échaufaud e il già citato incommensurabile Kind Of Blue.


I dieci DVD concernono tutte le esibizioni (pomeridiane e serali) del “Divino”, le otto volte che a Luglio si è presentato a Montreux: gli anni 1973, 1985, 1986, 1988, 1989, 1990, 1991; sono immagini e suoni utilissimi a capire come quel Miles dal vivo sia abbastanza diverso dai dischi in studio: meno effetti speciali talvolta futili e più concretezza grazie a lunghe improvvisazioni soliste da parte di preziosi collaboratori (un plauso in particolare ai sassofonisti da Dave Liebman a Bob Berg, da Rick Margitza a Kenny Garrett). Lungo gli anni Ottanta Davis torna a suonare quasi in chiave melodica, azzerando gli avanguardismi ancora udibili nel 1973, fino poi celebrare se stesso, dietro svariate insistenze, con le orchestre di Gil Evans e George Gruntz dirette da Quincy Jones a rendergli un filologico tributo a un paio di mesi prima della scomparsa, dovuta a uno dei tanti capricci che hanno costellato la sua esistenza: ma, a differenza dei pugni presi e dati a colleghi, fidanzate, banditi o poliziotti, la lite con i medici in clinica perché rifiuta di essere intubato, gli è purtroppo costata la vita!