Slideshow. Eleonora Beddini

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Slideshow. Eleonora Beddini.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo lavoro discografico Across The Road che è una rilettura anche jazz del beatlesiano Abbey Road?


Eleonora Beddini: È stato un lavoro molto intenso, bello, e anche una sfida, per certi versi. Abbey Road è un disco del 1969 ed è l’ultimo che i Beatles hanno inciso in studio: una summa straordinaria, di altissimo livello artistico e musicale. Per realizzare Across The Road ho cercato di innescare un processo di riscrittura, oltre che di pura rielaborazione musicale, e questo è stato tanto stimolante quanto complesso, basti pensare alla difficoltà di trovare un suono e uno stile che ambisca ad essere fedele e originale al contempo. Per non parlare poi della tensione di confrontarsi con musicisti grandi, enormi, come i Beatles sono stati.



JC: Perché tutte donne?


EB: Si tratta di un’idea del produttore esecutivo, Carlo Bertilaccio, che ha immaginato un progetto interamente femminile, a partire dagli arrangiamenti fino ad arrivare alle interpretazioni delle cantanti e delle strumentiste coinvolte. L’idea era di generare uno stile e una tessitura nuova, differente, per la natura stessa delle anime femminili che hanno abitato i brani. ll disco è firmato Mama’s Gan, nome del mio Duo pianoforte e voce (con Laura Zogaros Montanari). Il Duo ha già di per sè un’impronta marcatamente femminile, non soltanto per il fatto che siamo due donne, ma anche per la ricerca sensibile nell’impasto melodico e armonico, nelle sonorità essenziali e delicate, con un uso della vocalità di tipo espressivo ed emozionale, ricco di sfumature.



JC: Facciamo un passo indietro: mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


EB: Non ho un primo ricordo vero e proprio. Mi sembra di esserci nata dentro, in qualche modo. I miei genitori ascoltavano molta musica, mio padre è anche un ottimo musicista, e sin da piccola sono stata circondata e coccolata da amici e familiari che più di ogni altra cosa amavano ritrovarsi attorno a una chitarra a cantare vecchie canzoni italiane.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista?


EB: Prima di tutto la gioia che mi dava ascoltare musica e “ricostruirla” al pianoforte. Apprendere nuove canzoni e scoprire che non solo potevo suonarle, ma anche ricrearle, sconvolgerle. E poi non posso fare a meno di ascoltare, fortemente, ovunque io sia, e inventare, sovrapporre, scomporre i suoni che mi arrivano, voci, suoni dai luoghi, della strada, suoni naturali, suoni delle cose.



JC: Perché la scelta del pianoforte?


EB: I miei genitori me lo hanno comprato appena sono nata. Pensavano: “Anche se non le dovesse piacere, ce lo terremo ugualmente: è pur sempre un bel mobile!” E oggi penso che non esista strumento con altrettante possibilità timbriche, espressive, polifoniche. Ma questo è il mio punto di vista in bianco e nero!



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


EB: È difficile dirlo, sopratutto oggi. Il concetto di genere si è sfaldato, i linguaggi si lasciano continuamente contaminare, compenetrare, e tutto ciò, a mio parere, non è affatto un male. Le arti stesse sono contaminate, la video-arte, il teatro-danza, la musica da film e questa ambizione al sincretismo… ecco, ti dirò, non mi dispiace per niente!



JC: Ma cos’è per te il jazz?


EB: Quando ero piccola credevo che improvvisare significasse automaticamente fare del jazz. Cioè… il jazz si basa su questo, no? Si colora, si struttura, anche. Poi ho capito che si poteva improvvisare su tutto, sulla musica moderna, antica, leggera, classica, sul suono in genere. E allora mi sono detta… chissà se Haydn e Mozart oggi sarebbero dei jazzisti!



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica?


EB: L’istinto, l’emotività, l’impatto. Immagino che oltre al suono ci sia spazio, colore, azione, parola. Che il suono traversi i corpi e li scuota. Per me la musica è vibrazione, corpo, materia.



JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?


EB: Non saprei, a dire il vero; è molto difficile dirlo. Osserviamo fenomeni ciclici in cui un genere scompare e, come per magia, riappare mutato in altro. Il jazz, con i suoi stilemi linguistici e formali ha seminato nella storia profonde rivoluzioni musicali. E credo che non si potrà mai più prescindere da tutto questo. La musica, tutta, ne dovrà tenere conto, per sempre.



JC: Ci sono dischi ai quali a cui sei particolarmente affezionata?


EB: I dischi che più amo hanno ben poco a che vedere con la musica pianistica contemporanea, alla quale mi rivolgo principalmente. È buffo pensare che i dischi che ho consumato all’inverosimile sono quelli di Battiato, o quelli di Ivano Fossati, e, volendo uscire dall’Italia, quelli di Bjork o di Tori Amos.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte, nella musica, nella cultura, nella vita?


EB: Mio padre, prima di tutto, sicuramente. Che mi ha nutrito di musica sin dalla tenerissima età, che abbracciava la chitarra e mi incantava con armonie sospese, meravigliose. E poi, senza dubbio, i maestri di pianoforte e di composizione che ho avuto negli anni, alcuni di stampo marcatamente accademico e altri – al contrario – di stampo dichiaratamente anti-accademico. Ma ho appreso tantissimo anche lavorando con artisti trasversali alla musica, come i registi di teatro. Trovare un modello estetico comune e interagire con loro è sempre stato un lavoro estremamente intenso, poetico, e talvolta anche illuminante.



JC: C’è stato per te un momento più bello nella tua carriera di musicista?


EB: Non saprei dire. Ci sono stati molti momenti significativi, ecco, questo si. Il Recital finale al Conservatorio di Bologna, dove mi sono laureata qualche tempo fa, un risultato bello e gratificante che mi è costato molti sacrifici, ma che ora ricordo con profonda commozione. O alcuni premi vinti con il mio Duo Mama’s Gan, come il Premio Bianca d’Aponte, nel 2007, un’emozione che il solo ricordo mi dà i brividi. O studiare con Luis Bacalov, eccellente musicista e compositore di musica da film, e confrontarmi con il mondo dell’Accademia Chigiana, di cui ho tanti ricordi bellissimi.



JC: Il ruolo della donna in musica è difficile?


EB: Devo dire di sì, ahimè. Se ci fermiamo un attimo a pensare ci accorgiamo che non è consueto trovare donne – anche nella storia dell’arte tutta – che sono riuscite a firmare, con la loro personalità artistica, le proprie opere e farle passare alla storia. Non che non ci siano state grandi pittrici, scrittrici, musiciste, ma sono tutti ruoli che, per motivi storici e culturali, sembrano più competere agli uomini.



JC: Ma è un problema sessista o generalizzato?


EB: È già difficile fare musica oggi e, se sei una donna, lo è ancora di più. E se pensiamo ai pianisti ce ne vengono in mente tanti, ma di pianiste ce ne sono veramente poche! Così i direttori d’orchestra, i compositori. Le cantanti, ecco, le cantanti si che ce ne vengono in mente molte! E, anche lì, nella maggior parte dei casi si tratta di interpreti, non di autrici, cantautrici, compositrici. Ma in realtà nel sottobosco ce ne sono moltissime, di talento e di grande valore artistico; io ne ho conosciute davvero tante. Ma si molta fa fatica ad emergere; non è il talento che sembra interessare alla gente, non è il valore. E questo è davvero doloroso.



JC: Cambiando discorso, quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


EB: Mi è sempre piaciuto lavorare con le voci. Ho sempre scritto e arrangiato musica vocale. Amo il rapporto privilegiato vibrazionale che si crea tra lo strumento (che, in un certo senso, non può parlare, non può essere parola) e la vocalità, la linguistica, la fonetica, la poesia. Per questo motivo mi piace anche lavorare per il teatro, con gli attori, con i performer, A dire il vero, è forse la cosa che preferisco, la scena teatrale, la musica applicata dal vivo ad un’azione scenica. Mi piace lavorare con i teatranti, entriamo in relazione profonda, emotiva, emozionale.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


EB: Mi sto occupando del mio progetto solista. È già un po’ di tempo che propongo in concerto il mio spettacolo Gouache – Visioni su pentagramma, per pianoforte solo. Ora sto lavorando per la realizzazione di un disco, che mi piacerebbe fosse un dialogo tra brani di mia composizione e riscritture di brani già celebri, privilegiando un impasto musicale di tipo acustico e “cameristico”.