ECM Records – ECM 2172 – 2011
Iro Haarla: arpa, pianoforte
Mathias Eick: tromba
Trygve Seim: sax tenore e soprano
Ulf Krokfors: contrabbasso
Jon Christensen: batteria
Strumento di ben precisa caratterizzazione, l’arpa vanta antica e peculiare tradizione che già nel medioevo ne faceva una componente non soltanto decorativa dell’allora assai pittoresco arsenale strumentale, guadagnando già in era gotica sofisticate implicazioni e letteratura e, attraversando il lungo periodo “antiqua”, giungeva ad imporsi con personalità nell’orchestra moderna quale strumento conferente pittoresco languore e ben distinguibile colore.
Esponente contemporanea e piuttosto personale della stessa, la finlandese Iro Haarla (prescindendo dal dato che l’accrediterebbe come unica alfiera dell’arpa in jazz) aveva già efficacemente affiancato le vedute e le sessions del consorte Edvard Vesala quale arrangiatrice, orchestratrice e solista: riproponendosi adesso nella medesima formazione del primo Northbound (ECM, 2006) da questo riprende il carattere di peculiare eleganza, con fascinosi e toccanti legami di continuità con il lavoro del creativo percussionista, pur definendo ancora il proprio stile entro segni e stilemi di meditata, personale fluidità.
Particolarmente pregevole (perfino nell’adattarsi duttilmente al “low profile” qui richiesto – ed opportuno) la sezione dei fiati costituita dalla tromba di carattere di Mathias Eick e dai sassofoni in questo caso di stile neutrale del sempre interessante Trygve Seim (chi volesse godere una più tonica performance del duo li recuperi nello smaltato Playground di Manu Katché); il timone è retto dal roccioso contrabbasso di Ulf Krokfors, traghettato dopo le lunghe traversate nella band di Vesala e, muovendo con ferma discrezione e aerea sottrazione, il grandissimo veterano Jon Christensen riporta intatto il fascino crudo e tenuemente naïf dell’originario sound (o meglio clima) ECM, che in questa forma aggiornata si specchia nelle essenze meno formali del cool davisiano.
Lo stato soffusamente sognate tenuto in sospensione dal linguaggio lieve dei fiati in apertura può, sulle prime, trovare eco fondante nel sontuoso respiro della toccata arpistica rinascimentale (modello probabilmente non evocato, ma certo “nelle corde” e nella linfa organica della memoria dello strumento) per farsi avanti con mitigata sensualità, e ulteriormente s’impregna di una “naturale” nobiltà di passo nell’afflato immateriale dell’eponima Vesper, segnata dalla trance assorta delle note di pianoforte della protagonista, contenute entro il ripiegarsi e le lente danze delle nubi tinteggiate dalla duale brass-section, in uno dei momenti probabilmente più iconici e personali dell’album, disegnando quindi con efficacia da un piano all’occasione più plumbeo e presente le “calde correnti del mare” nel brano omonimo, strutturando ulteriormente il linguaggio – ma con tensioni mai accese – per poi riguadagnare leggerezze cameristiche in un prezioso dialogo arpa-fiati o lungo distillate introspezioni del solo-piano.
Fendendo le nebbie del silenzio con fraseologia nitida e aliena ai picchi, lo stile sensibilmente qui riproposto tributa efficace cittadinanza al sontuoso strumento a corde, persistente lungo questo personale progetto jazz che non imbraccia clangori o denunce, alimentando all’insegna di evocativi umori privati una esplorazione onirica e d’animo incruento.