Slideshow. Matteo Brancaleoni

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Slideshow. Matteo Brancaleoni.


Jazz Convention: Parliamo del tuo grande amore musicale, Frank Sinatra, The Voice. Sei giovane, non lo hai certo conosciuto…


Matteo Brancaleoni: Ma ho conosciuto la figlia Nancy, anche lei cantante! Mi ha scritto nel 1998; Frank era morto da poco ed io portavo avanti l’Italian Sinatra Society, una sorta di Fan Club ispirato all’omologo americano, con un magazine mensile, tradotto in italiano e lanciato in rete. Le feci una piccola intervista chiedendole alcune note tecniche circa il settaggio e i microfoni che usava il padre; e le indicazioni che mi diede al riguardo restano ancora molto interessanti.



JC: Puoi parlarcene?


MB: Nancy mi ricordò anzitutto un fatto che io già sapevo ma che molti dimenticano: che Sinatra era sordo all’orecchio sinistro e sempre vicino all’orecchio aveva pure una grossa cicatrice, che talvolta non riusciva a mascherare bene: e tutto questo pare fosse dovuto al parto travagliato di sua madre. La cicatrice era segno del forcipe dell’ostetrico che gli causò uh danno permanente all’udito, che con la vecchiaia è aumentato in maniera esponenziale.



JC: Tornando ai microfoni di Frank?


MB: Da Nancy ebbi la conferma che The Voice usò per primo i prototipi Schuire Fm58, ne furono costruiti due in oro massiccio, uno per lui, l’altro per Dean Martin. L’altro tipo di microfono preferito era della ditta tedesca Newman.



JC: Come vedi l’ispirazione di Sinatra a livello artistico?


MB: Come la ricerca di belcanto, grazie al microfono, assai più di un Bing Crosby che pure fu il primo a capire l’importanza di questo strumento per la voce. Oggi purtroppo il microfono è un mezzo usato (e abusato) dai cantanti per correggere le mancanze vocali, mentre Sinatra lo considerava uno strumento nobile sia per amplificare le timbriche sia per rimarcare certe sfumature personali.



JC: E cosa cogli quanto ascolti un suo disco o vedi The Voice in un video?


MB: Vedere cantare Sinatra si nota la sua capacità di allontanare o avvicinare il microfono, mantenendo una dinamica omogenea e dando al contempo la sensazione di una presenza forte e intensa, anche quando sta quasi sussurrando, perché era uno che non gridava mai.



JC: Quindi è giusto, per te, l’appellativo di The Voice (la voce) che gli hanno dato gli amici, i colleghi e i critici?


MB: Sinatra è la rotondità, la pulizia di suono, che giungono alla perfezione in un album come «Close To You», tutto molto lento, con sole ballads, dove si sente il pathos drammatico, con una ricerca impressionante del suono in generale (gli armonici) e dei suoni singoli (le vocali, la sonorità delle parole).



JC: Dunque un Sinatra sempre alla ricerca della perfezione proprio nell’emissione del suono?


MB: Senza dubbio. Nancy mi ha inoltre ricordato che Frank aveva una estensione da baritono che non arrivava oltre il Fa4: solo di rado cercava di spingersi più in là: ad esempio nella versione di Ol’ Man River c’è un lungo respiro di 26 secondi consecutivi. Quando lo fece in sala di registrazione, chiede a Nelson Riddle se doveva rifarla, ma questi gli rispose: “Tu sei Frank Sinatra, non abbassarla, devi prenderla proprio così”.



JC: In Italia rispetto a Sinatra il pubblico nostrano come si è comportato?


MB: Secondo me si è rivelato sempre un po’ snob, soprattutto quello del jazz e degli addetti ai lavori, che gli preferivano Billie Holiday o Ella Fitzgerald o persino il Louis Armstrong più commerciale. Forse ne facevano una questione ideologica ad esempio negli anni Sessanta, quando tutti o quasi sostenevano che il solo vero jazz era quello nero. Ma proprio un alfiere della negritudine, un jazzman impegnato come Miles Davis fu molto sincero nel dire che si era ispirato anzitutto a Sinatra nel fraseggiare. E questo dovrebbe far riflettere sull’importanza avuta nella storia del jazz anche da cantanti come Sinatra.



JC: E comunque Frank ha cantato anche in contesti di jazz puro…


MB: Ad esempio più volte, anche dal vivo, con la Count Basie Orchestra o in un disco con Duke Ellington oppure con il sestetto che ha compiuto una lunga tournée in Australia e in Europa: con lui c’era addirittura Red Norvo, un grande vibrafonista, da riscoprire; erano anni sentimentalmente burrascosi, lui aveva chiuso la sua storia con Ava Garner e certi versi autobiografici ci fanno capire lo stato d’animo non proprio allegro o sereno; c’è al proposito un bell’album Live In Paris – siamo attorno al 1962-1963 – e a introdurlo all’Olympia c’era Charles Aznavour, mentre al Manzoni di Milano quest’onore spettò a Johnny Dorelli.



JC: I cantanti italiani più o meno coevi a lui, amavano Sinatra?


MB: Nicola Arigliano non lo amava tanto, lo considerava melenso, gli preferiva cantanti donne come Anita O’ Day, oppure aveva un’autentica venerazione per Billy Eckstine, che anche Franco Cerri può confermare. Renato Sellani, pianista, all’epoca era invece innamorato nell’album Only The Lovely, un disco intenso perché anche qui si avvertono gli echi di una disperazione esistenziale autentica.



JC: Però in genere l’apprezzamento era quasi unanime?


MB: Sì, quasi tutti i moderni cantanti melodici dell’Italia di fine anni Cinquanta – i cosiddetti crooners – non possono che dire un gran bene di Frank, musicalmente parlando: Teddy Reno ha condotto in RAI un’intera trasmissione dedicata a lui, che l’incontro parecchie volte tra il 1958 e il 1963. Teddy ha una venerazione perfetta che non ha mai nascosto, come pure John Dorelli o Tony Renis: tuttavia l’ego di ognuno li porta a non reggere i confronti.



JC: E il tuo atteggiamento verso Frank Sinatra?


MB: Resta anzitutto di rispetto filologico: a casa di lui ho circa seicento dischi e centoventi libri di analisi delle canzoni che ha interpretato. Tanti giovani oggi che dicono di ispirarsi a Sinatra, in realtà fanno il verso al mio amico Michael Bublé, ossia una scoperta tardiva, anche se per me Bublé, oltre un amico, resta un bravo cantante.



JC: Ma ci sono ulteriori fans sinatriani in Italia?


MB: C’è un Renzo Arbore o grandi appassionati quali Christian De Sica, ottimo cantante grazie all’alta tecnica vocale, alla ricerca della dizione, con un’eccellente proprietà di linguaggio e di pronuncia.



JC: The Voice infatti non dava importanza solo alla voce, ma anche moltissimo al testo di una canzone…


MB: Sinatra diceva sempre che non si può cantare Stormy Weather se non si conosce quali sono le tempeste della vita; infatti lui l’ha interpretata nel periodo burrascoso con Ava Garner; e nella sua Stormy Weather io avverto la sofferenza, un po’ come la si sente in Billie Holiday, anche se rispetto a lei Frank non aveva l’espressione dolorosa, ma una voce scanzonata e maliarda. Del resto anch’io non sopporto cantare senza capire il testo.



JC: Ma oggi, alla fin fine, esistono cantanti che si sono ispirati più o meno direttamente a Frank Sinatra?


MB: Io penserei a Kurt Elling (che gli ha dedicato un autentico omaggio), a Harry Connick Jr, a James Cullum (che è inglese), a Peter Cincotti e Chris Botti che, come Frank sono italoamericani.



JC: E in Italia?


MB: Ci sono Larry Franco (che però è anche molto influenzato da Nat King Cole) e Massimo Lopez che, tra il serio e il faceto, si è rivelato un interprete competente e gradevolissimo.



JC: Terminiamo con una “rivelazione”…


MB: Pochi ricordano che Frank Sinatra ha scritto un metodo Tipson Popular Swingin’, assieme al suo vocal coach: sono esercizi e vocalizzi, in cui si può notare il massimo rispetto per le parole del testo, per la storia da interpretare in un modo quasi teatrale, nel senso migliore del termine.