Mehldau e Corea all’Auditorium Parco della Musica di Roma

Foto: C. Taylor Crothers










Mehldau e Corea all’Auditorium Parco della Musica di Roma


Brad Mehldau Solo. Roma, Auditorium Parco della Musica. 7 marzo 2012.

Brad Mehldau Trio. Roma, Auditorium Parco della Musica. 12 marzo 2012.

Chick Corea & Gary Burton. Roma, Auditorium Parco della Musica. 14 marzo 2012.


È il pianoforte, nel mese di marzo, il grande protagonista all’Auditorium Parco della Musica. Nell’arco di una settimana infatti due grandi dello strumento a tasti, di generazioni e approcci diversi, sono sbarcati a Roma per tre serate molto attese da pubblico e critica. Il sette marzo viene concessa carta bianca a Brad Mehldau che si presenta in perfetta solitudine per uno show sempre particolarmente amato. Il pianista americano ha infatti mosso i primi passi proprio nelle edizioni di Umbria Jazz dei primi anni novanta, attirando su di sé le prime attenzioni della stampa specializzata in un feeling con il nostro paese che negli anni è andato via via consolidandosi.


Come suo solito, Mehldau si siede davanti al classico Stainway gran coda senza proferir parola alla ricerca della massima concentrazione, in un atteggiamento algido che ricorda da vicino l’approccio col pubblico di Jarrett, con l’inevitabile assoluto divieto di scattare fotografie. La scelta di aprire con un brano dei Beatles; Hey Jude, lascia intendere un repertorio vario e dinamico, previsione ben presto disattesa. Lo stesso brano d’apertura infatti si trasforma fin dalle prime battute in un blues carico di tensione, così come le composizioni che seguono, caratterizzate da melodie mai facili e da accordi sospesi che mai risolvono, creando di contro tensioni continue che faticano ad emozionare. Discorso opposto invece quando riprende brani composti da altri, dalle ballad jazz, con una strepitosa I Fall In Love Too Easily, passando per i classici della musica pop e rock a noi più vicini, come il primo dei tre bis a firma dei Nirvana o il conclusivo tango in cui un Mehldau più sciolto e rilassato riesce ad esprimersi al meglio.


Per la seconda delle serate a lui dedicate, Mehldau sceglie il suo trio, con i fidati Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alle percussioni, insomma una garanzia. Ed invece anche qui non tutto sembra andare come nelle attese. Complice anche alcune problematiche di equalizzazione – con il pianoforte mai davanti agli altri strumenti ma anzi spesso sovrastato dalle pelli di una batteria fin troppo esuberante – anche in questo contesto Mehldau non appare particolarmente ispirato, manifestandosi freddo e distaccato, quasi svogliato. La scena la ruba così un Grenadier in grande forma, vero leader di una ritmica che non trova in Ballard l’ideale punto di riferimento. Come nella prima serata, i momenti migliori sono quando i tre ci cimentano con gli standards, dove spicca una intensa Airegin, e nuovamente i bis, in cui Mehldau sembra riprendere finalmente vigore fino alla conclusiva memorabile versione di una quasi irriconoscibile Teardrop dei Massive Attack. Ma tolto ciò l’impressione che resta è quella che i tre sembrino limitarsi al compitino in un interplay quasi nullo, figlio anche di una lunga tournée davvero estenuante.


Mercoledì 14 è il turno di un altro grande maestro del piano, Chick Corea, accompagnato dal vibrafono di Gary Burton in un duo che ha scritto pagine memorabili nella storia del jazz. Ed è proprio per festeggiare i quarant’anni dell’uscita del loro primo album insieme che i due si sono voluti regalare un album in uscita in questi giorni, Hot House, ed una tournée mondiale con tappa italiana proprio a Roma. A differenza del trio di Mehldau, qui è proprio l’intesa tra i due a caratterizzare il tutto in un interplay raro che fonde e completa i due strumenti in un dialogo costante che non finisce ancora di stupire. La forma del duo d’altra parte è sempre stato uno dei contesti preferiti da Corea, libero di spaziare con le melodie create dal compagno di turno, così come per Burton, che ha sempre avuto un approccio pianistico dello strumento, reinventandosi anche la tecnica delle doppie bacchette.


I due ripercorrono con raffinatezza tutte le tappe più significative della musica jazz ma non solo, dando vita ad originali versioni di celebri standard racchiusi nel prossimo album licenziato dalla Concord. Ecco che troviamo dunque le grandi figure del jazz ed i loro brani più significativi, dalla Light Blue di Thelonious Monk alla Time Remembered di Bill Evans fino al bebop di Hot House di Dizzy Gillespie, ma anche i ritmi sudamericani Antonio Carlos Jobim con la sua Chega de Saudade tanto cara a Burton, quelli pop dei Beatles con Eleanor Rigby, e ancora frammenti di musica da camera con Mozart Goes dancing dello stesso Corea, oltre ai brani originali a firma dei due. Spesso i temi sono proposti all’unisono, altre volte è Burton a rileggerli con grande raffinatezza, trovando in Corea la spalla ideale, superlativo nell’accompagnarlo ritmicamente. È comunque il continuo ed impeccabile scambio delle parti la vera arma vincente condito da un gusto ricercato e da una buona dose di ironia. Tutto secondo un copione già ampiamente annunciato ma che conferma ancora una volta tutta la qualità di questo straordinario sodalizio.