Foto: Ines Kaiser
Abdullah Ibrahim all’Auditorium Parco della Musica di Roma
Roma, Auditorium Parco della Musica. 14.4.2012.
Abdullah Ibrahim: pianoforte
Per il ciclo “Solo” dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, sabato 14 aprile è di scena uno dei nomi più rappresentativi della musica afroamericana, il pianista sudafricano Abdullah Ibrahim. La sua figura è infatti indissolubilmente legata alla storia del jazz, così anche tutta la sua vita, in cui si può cogliere tutta l’essenza di quello che il jazz ha rappresentato in termini di libertà, orgoglio e riscatto sociale. Nato a Cape Town nel 1934, iniziò a lavorare come musicista professionista già all’età di 15 anni, arrivando al successo internazionale nei primissimi anni ’60. Ma era un periodo in cui essere nero era ancora un problema negli Stati Uniti, e ancor di più lo era in Sudafrica durante il periodo dell’apartheid. Inevitabile dunque il suo esilio in Europa, in Svizzera prima ed in Danimarca poi, dove fu notato da Duke Ellington che entusiasta lo portò con sé a New York. Lì l’incontro con i grandi dell’avanguardia ne segnarono il percorso musicale soprattutto dal punto di vista improvvisativo, anche se ben salde rimasero i legami con la sua terra. Nel ’68 l’altra svolta significativa della sua vita, la conversione all’Islam, che gli ha fatto intraprendere un lungo cammino spirituale tutt’oggi ancora in corso. Esperienze che ne hanno segnato la vita e la carriera, ma che inevitabilmente si riflettono nella sua musica in una relazione profonda tra il jazz americano e la musica africana.
Ibrahim è tra coloro che meglio riescono ad interpretare la dimensione del piano solo riuscendo a sfruttare appieno tutte le potenzialità intime ed estemporanee che soltanto questo contesto può offrire, e l’attesa anche in questa occasione non è stata affatto tradita. Elegante ed in splendida forma, Ibrahim dà vita ad un’unica lunga suite senza interruzioni fatta di brevi frammenti in cui sono rinchiusi tutti i passaggi più importanti della sua carriera, in quella che sembra essere la sua autobiografia musicale. La mancanza assoluta di pause immerge totalmente lo spettatore nelle atmosfere disegnate dalle melodie del piano in un silenzio assoluto. Ibrahim è essenziale, diretto ma estremamente efficace, riuscendo a creare un rapporto intimo fin dalle prime battute tra la sua musica ed il pubblico. L’estemporaneità è l’elemento fondante, ma l’improvvisazione rimane sempre lineare in un area che non lascia spazio a virtuosismi. Ibrahim fa parte di quella piccola schiera di musicisti riconoscibili da poche note ed il tocco delicato ed il suono limpido sono di quelli che, nonostante la situazione richieda comunque una certa attenzione, non si finirebbe mai di ascoltare, riuscendo ad attirare gli ascoltatori quasi fosse uno sciamano. La lunga suite è un caleidoscopio di colori ed emozioni contrastanti in cui vengono ripresi via via i temi più cari al pianista e dove la musica assume sempre una dimensione orchestrale. Ogni singola nota viene scandita con una chiarezza e leggerezza sbalorditiva, martellante sui bassi con la mano sinistra, in cui vengono rimandati i ritmi e le radici africane, morbido ed incisivo con la destra, dove stacca le note essenziali in una continua rielaborazione delle melodie, in un mix che rapisce la platea che ricambia convita con una meritata standing ovation finale per quello che rimarrà come uno dei migliori concerti visti in questa stagione invernale a Roma.