Foto: Fabio Ciminiera
Slideshow. Marta Raviglia.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo, puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Marta Raviglia: Mansarda, il mio ultimo disco (Improvvisatore Involontario 2011), nasce grazie al progetto Amazing Recordings promosso dal collettivo Franco Ferguson, di cui sono membro, per documentare parte della scena musicale che negli ultimi anni si è raccolta intorno alle iniziative del collettivo stesso. Pur collaborando tra di noi in varie altre formazioni, con Henry Cook, Giacomo Ancillotto, Roberto Raciti e Francesco Cusa ci siamo trovati tutti insieme per la prima volta proprio durante queste registrazioni, che costituiscono la prima parte del disco e, entusiasti di questa esperienza e del risultato ottenuto, dopo un anno abbiamo deciso di ritrovarci per completare l’opera. Per quanto sia difficile crederlo, per via della sua eccezionale coerenza e coesione, la musica e i testi di entrambe le sedute sono completamente improvvisati e rappresentano il nostro tentativo di combinare lo spirito della creazione estemporanea con quello della forma canzone.
JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
MR: Ricordo perfettamente di una caldissima giornata estiva. Potevo forse avere quattro o cinque anni ed ero seduta sul balcone di casa con le gambe che penzolavano attraverso la ringhiera di ferro verniciata di marrone. Senza sapere una parola d’inglese e tentando di riprodurne esattamente i suoni, cantavo a squarciagola un brano di Michael Jackson che passava alla radio mentre mia madre sbrigava le faccende di casa. Un vicino, passando di lì, si fermò ad ascoltare. Me ne resi conto solo quando aprii gli occhi. Doveva essere là da un po’ e mi sorrideva.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una cantante?
MR: Canto sin da quando ero bambina poiché il canto, così come l’improvvisazione, è per me una forma espressiva del tutto naturale. Tuttavia, per un certo periodo della mia vita, ho creduto di poterlo mettere da parte: in primo luogo, per coltivare i miei studi di pianoforte classico, abbandonati definitivamente durante i primi anni di università; in secondo luogo, a causa del desiderio fugace di intraprendere la carriera accademica. Il ritorno alla voce e al canto è stato graduale e molto sofferto e l’unico motivo che mi abbia spinta a riappropriarmi dell’una e dell’altro è legato alla necessità di assecondare la mia vera natura.
JC: Pensi sia difficile essere donna nel jazz? La condizione femminile aiuta o no in questa musica?
MR: Le donne del jazz in Italia sono vittime dello stesso tipo di discriminazione che si sperimenta in tutti gli altri ambiti lavorativi. Tuttavia, questo rende la situazione incoraggiante, sono poche quelle che cedono alla tentazione di scendere a compromessi. Di fatto, ascoltare musica, leggere, fruire dell’arte e studiare è molto più divertente che passare giornate intere a preoccuparsi del proprio aspetto.
JC: E a scegliere principalmente il jazz da cantare?
MR: Quella di cantare può essere per una musicista una scelta molto difficile perché se da un alto si tiene spesso in considerazione solo l’aspetto esibizionistico della performance, in virtù di quanto affermato in precedenza; spesso, invece, si dimentica che quando si canta non c’è l’intermediazione di uno strumento, ma si è completamenti nudi di fronte al pubblico. È per questo che è molto più difficile mettersi in gioco e sperimentare, piuttosto che affidarsi ad un repertorio consolidato, inflazionato e di sicuro successo.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
MR: Per quanto non ami le etichette, ritengo che abbia ancora senso usare la parola jazz, ma solo se ci si riferisce a quella libertà espressiva e a quella commistione di tradizioni musicali e culturali che si possono esperire l’una attraverso la pratica improvvisativa e l’altra attraverso la curiosità intellettuale. Trovo, invece, ingiustificabile la tendenza che spesso si ha nell’attribuire a questa stessa parola caratterizzazioni limitanti riferite ad un particolare stile.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
MR: Non ho mai pensato al jazz come ad un genere musicale circoscritto ma, piuttosto, come ad un modo di intendere la musica e di vivificarla attraverso la pratica dell’improvvisazione.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
MR: Libertà. Ricerca. Rigore.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
MR: Non posso saperlo, ma mi piacerebbe tanto scoprirlo. Credo, tuttavia, che l’evoluzione di questa musica e di tutte le altre musiche dipenderà essenzialmente dal desiderio delle nuove generazioni di musicisti di spingersi oltre e di continuare a sperimentare senza la preoccupazione di essere necessariamente legati ad una corrente o fedeli agli stilemi di un particolare genere.
JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionata?
MR: Rifarei tutti i dischi incisi finora perché, anche se alcuni di essi non mi rappresentano più, sono stati realizzati con grande onestà. Senza dubbio, però, Morfeo (Monk Records 2009) e Vocione (Monk Records 2010) sono le incisioni che hanno determinato una svolta nel mio percorso artistico, avendomi fatto prendere coscienza delle infinite possibilità espressive dello strumento voce per via degli arditi repertori che presentano e del lungo lavoro di interiorizzazione che hanno comportato.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel canto, nella musica, nella cultura, nella vita?
MR: Non credo di poter elencare tutti i musicisti, i letterati, gli artisti, i filosofi e le persone care che hanno esercitato un forte ascendente su di me. L’elenco non finirebbe mai perché sono una persona molto curiosa e mi piace scavare nei meandri del sapere: consapevole, però, del fatto che non saprò mai. Ad ogni modo, devo molto ad alcune persone che ho incontrato nel mio cammino e che sono state infinitamente generose con me.
JC: Chi sono? Puoi farci qualche esempio?
MR: Tra queste Alessandro Portelli, docente di letteratura angloamericana presso l’Università «La Sapienza» di Roma, col quale mi sono laureata diversi anni or sono. Senza di lui, non avrei mai intrapreso questa strada. E, poi, anche Cinzia Spata e Maria Pia De Vito, maestre di canto e di vita che hanno dispensato consigli fondamentali per la mia crescita umana e musicale. Devo moltissimo anche a tutti i musicisti con i quali il mio percorso si è sviluppato fino ad oggi e ai miei allievi: grazie a loro continuo a cercare e, spero, a migliorare. Grande fonte di inspirazione per la mia ricerca, infine, viene dalla mia terra: Segni, paese piccolo e antichissimo immerso nella vegetazione fitta e selvaggia dei Monti Lepini nella bassa provincia di Roma.
JC: Qual è o è stato per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
MR: Non posso dire che ci sia stato un solo momento bello o di particolar rilievo nella mia carriera. Direi, piuttosto, che ce ne sono stati molti e sono tutti coincisi con nuovi incontri e nuove sfide.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
MR: Amo rimettermi in discussione e amo, ancor di più, rischiare. Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di collaborare assiduamente con musicisti incredibili che hanno permesso che ciò accadesse e che continui ad accadere. Tra questi ci sono il trombonista Tony Cattano, compagno di disavventure nel duo Vocione; il cantante Manuel Attanasio, col quale esploro quella terra di confine a cavallo tra sperimentazione vocale ed elettronica; il bassista Pierluigi Balducci e il chitarrista Maurizio Brunod, improvvisatori sopraffini grazie ai quali posso rileggere in chiave contemporanea la forma canzone; i già citati componenti di Mansarda (Henry Cook, Giacomo Ancillotto, Roberto Raciti, Francesco Cusa) che creano terreno fertile affinché la mia vena attoriale trovi uno sfogo. Senza dimenticare la bellissima esperienza che tuttora svolgo all’interno del collettivo Franco Ferguson e le collaborazioni, sempre più assidue, con l’Orchestra Jazz della Sardegna e l’ensemble di percussionisti Odwalla che mi permettono di confrontarmi con repertori estremamente stimolanti.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
MR: Attualmente sto lavorando a diversi progetti tra cui: il prossimo disco del mio quartetto, un concept album che conterrà brani scritti da me; l’allestimento di un’opera con musiche di Simone Sbarzella, testi dello scrittore Claudio Morandini e la partecipazione della pianista Cristina Biagini, nonché di un gruppo di attori; la collaborazione col polistrumentista Simone Riva, produttore tra gli altri di Naif Herin, col quale pubblicherò un disco entro il 2012. Senza contare che sono in programma altri capitoli discografici con sia con Vocione che con Mansarda. Mentre, invece, il duo con Manuel Attanasio si è arricchito recentemente della presenza dei danzatori del Balletto del Mediterraneo di Alessandra Mura col quale sono previsti nuovi lavori.