Foto: Andrea Buccella
Traditions and Clusters, il nuovo disco di Franco D’Andrea.
Franco D’Andrea, settant’anni, oltre quaranta dischi a suo nome e infinite partecipazioni con le più disparate genie di musicisti del panorama jazz italiano e mondiale. Eccolo nuovamente sulla ribalta con un lavoro inedito, live, doppio e intitolato Traditions and Clusters. Gli sono accanto, oltre ai fidi De Rossi, Mella e Ayassot, anche Daniele D’Agaro, Mauro Ottolini e il vulcanico batterista olandese Han Bennink. La casa discografica è la stessa degli ultimi dischi, la sempre più carismatica e imprevedibile El Gallo Rojo.
Jazz Convention: Traditions and Clusters è il tuo ultimo lavoro, un disco doppio…
Franco D’Andrea: È diventato doppio per caso. Pensavo, in realtà, di fare un singolo. Premetto che lo scorso anno ho avuto la fortuna di fare un bel po’ di concerti. Sono stato festeggiato per i miei settant’anni. Io registro sempre le mie cose perché mi servono per studiarci sopra. A un certo punto mi sono reso conto che c’era qualcosa nelle registrazioni che poteva entrare a far parte di un disco. La prima è stata a Trento a una rassegna dedicata a me e intitolata Itinerari Jazz. Mi è stato concesso di fare una serata costruita sui miei progetti. Ho presentato due parti di concerto dove in una c’erano ospiti Han Bennink, con Ottolini e D’Agaro e, dall’altra parte, invece il quartetto. Ho constatato in seguito che il concerto, così com’era programmato, non andava bene. Così ho deciso di estrapolare alcuni pezzi interessanti ed ho cominciato a immaginarli mettendoli in un ordine diverso. Ho capovolto la situazione ed ho messo per prima la performance del trio come compare sul disco, anche se nella rassegna trentina aveva chiuso il concerto. Era anche la prima volta che suonavo con Han Bennink. Poi, al di là di alcune situazioni curiose che si sono verificate sul palco durante l’esibizione, c’è da segnalare che Han suonava il rullante per sua scelta. Dopo diversi concerti mi ero accorto che funzionava meglio una parte della batteria anziché tutta.
JC: Quindi lui continuava a suonare il rullante?
FDA: Si, lui continuava a suonare il rullante. Funzionava benissimo. La proporzione, anche sonora, fra i vari strumenti era perfetta.
JC: Dopo le vicissitudini foniche avute sul palco nei primi due pezzi, che non hai messo su disco, è dal terzo brano che parte il concerto?
FDA: Si il concerto parte praticamente dal terzo pezzo. Ma è dal quarto poi, un medley, che ci vede pronti ad andare avanti, che l’intesa matura tra noi minuto dopo minuto -. È un brano della tradizione che faceva spesso Armstrong, I’ve found a new baby, ad aprire il medley. Poi, a un certo punto, s’insinua Turkish Mambo di Tristano. Questo brano è diventato un tormentone negli ultimi dieci anni. Per me è simbolo di una libertà incredibile. Dà la possibilità di fare e inventare ogni volta delle cose solo con i tre riff che contiene. Con il trio portiamo questo brano indietro nel tempo. Come se fosse un blues astratto. Con gli strumenti a fiato invece si apre molto e diventa più solare (questo avviene nel secondo disco). Il tutto naviga intorno agli anni trenta, il jungle style, il blues, la tradizione.
JC: È questo il motivo per il quale il disco si chiama Tradition and Clusters?
FDA: Infatti, si chiama così proprio per questo. Piano pian mi sono reso conto di questo filo rosso che poteva portare il disco ad una cosa inventata, costruita a posteriori. Avere tante cose, metterle insieme e a un certo punto, raccontare una storia. Chiaramente ci sono anche i clusters di cui lo scorso anno ne ho fatto un uso smodato, sperimentandoli.
JC: Il medley finisce con Gershwin…
FDA: Si con Strawberries da Porgy and Bess. È venuta fuori una cosa melodica, fatta molto all’antica. Una roba ancora più antica di come Gershwin l’ha pensata. Col trombone che suona con la sordina…
JC: Ho notato che dopo il primo brano la formazione cambia.
FDA: Si, ho deciso di ribaltare la situazione. Ho inserito il quartetto. Ma mi sono chiesto: come faccio a legare questo pezzo antico con il quartetto? Ho trovato un brano che faceva sempre parte del concerto e cominciava con un assolo di batteria di Zeno De Rossi che ricordava molto Baby Doods, i vecchi batteristi, Krupa. L’assolo non era fatto alla loro maniera ma con uno stile moderno. Insomma ho scelto i pezzi più astratti che abbiamo fatto con il quartetto. È li ci sono i clusters. Uno è Monodic. Che è preceduto da cinque minuti di clusters. L’altro è maturato sul palco perché io andavo avanti con la mia melodia, con il mio ritmo da circa cinque minuti, quando dopo un po’ Zeno De Rossi si è stancato ed ha cominciato a suonarci su una melodia che è finita dritta nel mio Half The Fun. Qui diviene un pezzo diverso rispetto a quello che ho inciso precedentemente. C’è, per esempio, un bellissimo crescendo. Il ritmo ha una forte connotazione funky e chiude questo strano medley dove ci sono anche i clusters. Per ultimare il disco mi serviva qualcosa che sintetizzasse i due aspetti, Traditions and Clusters. In primis dovevo chiudere con i clusters. Così mi sono immaginato un pezzo di piano solo lungo tre minuti. Inoltre volevo prendere alcuni brani oggi contenuti nel secondo disco, per completare il primo. Erano stati registrati al Jazz Festival di Lagarina. Ma ascoltando l’intera registrazione del concerto, mi sono reso conto che era stata una performance perfetta, intangibile e degna di essere riportata su disco. Al chè ho proposto di far diventare questo disco doppio. Ho usato Caravan per chiudere il primo disco. È un brano perfetto perché funge da sintesi e fa da ponte con il secondo disco, dove è riprodotto il concerto integrale, senza il bis, del sestetto registrato a Lagarina. Quella sera a Lagarina, casualmente, è nato un disco e anche un gruppo. Il suono del gruppo è inedito, nuovo. Questo è il mio gruppo per l’avvenire. Traditions and Clusters, in qualche maniera, crea una svolta: il suono viene posto al di sopra di tutto.