Tord Gustavsen Quartet – The Well

Tord Gustavsen Quartet - The Well

ECM Records – ECM 2237 – 2011




Tord Gustavsen: pianoforte

Mats Eilertsen: contrabbasso

Jarle Vespestad: batteria

Tore Brunborg: sax tenore






Il piano-trio, se non è forma perfetta, è certo quel grado di amalgama, e quel punto di forza dei “numeri primi”, che non trova più ragioni di essere argomentato, non fosse per l’imponente messe espressiva che l’hanno reso un monumento fondante dell’ormai variegato panorama e delle multiple logiche del jazz. Al canone aveva contribuito con valide e ammirate prove il giovane trio capitanato da Tord Gustavsen, che dopo le tre uscite (Changing Places, The Ground, Being There) aveva optato per un’espansione di line-up: ma non necessariamente ciò scompagina le regole.


Rimossa (rispetto al precedente Restored, Returned) la presenza di rauco ed intrigante fascino vocale di Kristin Asbjiørnsen (voce “cult” almeno per la bukowskiana Slow Day) la formazione triangolata delle tre precedenti uscite si consolida in quartetto con il sax di Tore Brunborg, invariata nella sezione ritmica con il basso di Mats Eilertsen e la batteria di Jarle Vespestad, ma l’aderenza formale alla formula ternaria anche qui non si mantiene costrittiva nel suo naturale sganciamento dalla stessa.


Gustavsen non abbandona qui l’inclinazione ai momenti prevalentemente “solo”, come nello sviluppo di Prelude, la cui ariosità ieratica s’infittisce subito nel drumming elastico e pergamenaceo di Playing, passando al raccoglimento cameristico e allo spazio privato delle memorie infantili della Suite, altro momento di richiamo alla classicità sancito dal mutamento cellistico di forma dello strumento di Mats Eilertsen.


I clangori metallici delle corde basse annuncianti il bassorilievo dei tasti e il canto sensibile del sax nella contemplativa Communion destano l’attenzione verso eco svennsoniane, chissà quanto involontarie e comunque non gratuite. Il medagliere dell’altro, ed estinto, trio E.S.T. non necessita di citazioni, ma certo le analogie non si cercheranno unicamente nella fascia generazionale o di latitudine: almeno le sezioni ritmiche delle due formazioni sono plasmate da morfologie cross-over – il bassista Mats Eilertsen è uso dare corpo alle idee di autori molto diversi, dal violinista etnico Nils Økland al chitarrista Jacob Young, così come il batterista Jarle Vespestad è stato motore efficiente delle inquiete macchine di Arve Henriksen e di Supersilent.


Il sapido controcanto dell’ottone urticante e speziato di Tore Brunborg funge da àncora alle morfologie acquatiche del piano, che mantiene presente nell’ossatura un dettato classico tendente volentieri e spesso a temperarsi di cantabilità levantina: qui le architetture denunciano fragilità e insieme grandi punti saldi, e se nei momenti di incedere più dilatato si percepisce il senso dell’orazione (più propriamente un aperto agnosticismo dalla mistica distante), l’ispirazione è ondivaga eppure radicante, l’ossatura di consistenza vitrea possiede corpo tuttavia efficiente. I mood qui dominanti si palesano nella sequenza di umorali cantilene, di trasparente dimestichezza con le liquide dimensioni della notte, e il prosieguo della danza indolente e blandamente sensuale in Circling è seguita dalla fulminea e minimale esposizione tematica dell’intima, austera Glasgow Intro, idealmente sviluppata in concretezza nell’altalenante The Well, che nel più incisivo carattere fa sue più piene energie e le più luminose forze dei metalli strumentali. Ombre e raccolto mistero nelle forme guidate dal piano nella sensibile ripresa di Communion, Var. precedono le scansioni pulsanti e le dilatazioni melodiche di Intuition attraversando in Inside le arcate cavernose a quattro corde, mantenendo sospeso il canto dei solisti fino alla sua cessazione.


Reciso il filo vitale del perno di E.S.T., qui riconosciamo un opponibile volto del piano, di diverse inclinazione ed attrattiva nei suoi sviluppi: per certi versi difettivo, nel mantenersi a margine del jazz più grintosamente inteso, ma forte di eloquenza e distillata classe, che detiene nei suoi volumi e nelle sue energie discrete il chiarore della notte boreale: più che tiepido lucore – mai davvero abbacinante.