Anthony Braxton – Quartet (Mestre) 2008

Anthony Braxton - Quartet (Mestre) 2008

Caligola Records – Caligola 2135 – 2011




Anthony Braxton: sax soprano, sax sopranino, sax alto, clarinetto contrabbasso, laptop

Mary Halvorson: chitarra elettrica

Tylor Ho Bynum: tromba piccolo, tromba basso, cornetto, flicorno, trombone

Katherine Young: fagotto






Nel volume Blutopia di Graham Lock (Duke University Press, 1999), l’autore (con palese disponibilità di tempo libero) tratteggia un’estensiva disanima sulle “Visioni del Futuro e revisioni del Passato nell’opera di Duke Ellington, Sun Ra e Anthony Braxton”.


Curioso il destino che colpisce i Grandi, comunque intesi: se al più storico caposcuola toccò nei più rabbiosi (e perché no, “impegnati”) anni del jazz “liberato” di poter esser sminuito, sottostimandone assai i contributi creativi, e sul secondo si poteva senza troppi indugi sorvolare a pie’ pari per non troppo limpide questioni di ispirazione e soprattutto identità stilistica, attenzioni incondizionate invece per l’ideatore e performer di Saxophone Improvisations, nonché tra i più contributivi alfieri della seconda generazione del free (almeno in termini di rappresentazione mediatica, se si ammette la primogenitura di Coleman, oltre alle tardive onde di Coltrane).


La somma delle produzioni a venire (e soprattutto l’oggettivo orientamento del mercato) causò particolarmente nel caso del superstite contemporaneo un deciso appannamento di visibilità, quantunque sempre attivo sia in performance che sul versante teoretico (essendo noto, e dominante, il carattere speculativo e di ricerca dell’opus braxtoniano) però magari peggio dei due predecessori, segnò un colpo alla visionarietà utopica del chicagoano che, se non giunse ad attingere alla megalomania di uno Stockausen nel teorizzare direzioni musicali satellitari e performances interplanetarie, poco vi mancò.


Alle “visioni del futuro” (sempre citando Blutopia) il portato di Anthony Braxton non sembra comunque apparire modesto, né “revisioni” (o ridimensionamenti) da parte del presente appaiono costrittive: il corpus teorico del sassofonista-compositore appare talmente esteso e solido da garantire rendite certe – almeno creativamente parlando.


La presente incisione ha un “gemello” in un live moscovita pubblicato da Leo Records (Anthony Braxton Quartet [Moscow] 2008) che non abbonda (anzi latita) in note – preferendo invece esibire un portfolio di foto in gita alla Piazza Rossa, in cui Braxton “creativamente” si produce in una serie di “faccette” alla Bill Cosby (e siamo pure troppo teneri) riscattandosi on stage con piena dignità nei concentrati settanta minuti della composizione istantanea (qui denominata 367B) ed un breve bis.


L’innesto della giovanissima fagottista Katherine Young (che ha cospirato anche con alcuni tra i più minacciosi fuoriusciti del più nuovo Krautrock) completava il Diamond Curtain Wall Trio arruolante gli allievi (e, di loro, iperattivi solisti) Tylor Bo Bynum e Mary Halvorson; co-protagoniste le live electronics, che non sono un’eresia e ancor meno una neo-conversione entro le concezioni del Maestro (che ne fece un elemento protagonista nel suo epocale Time Zones). Le “elettroniche reattive computerizzate” (basate sul software Super-Collider) non appaiono dominanti, fungendo più da privilegiato (e motivante) “punto di regia” dell’effusione sonora e dell’interplay, scandito verticalmente da un fattore tempo “totemizzato” dalla clessidra posta al centro dell’azione sonora (e occhieggiando le foto di scena italiane sembra poter scorgere davanti ai musicisti una pittura simil-Rorschach che è un probabile elemento visuale di richiamo di energie ulteriori emergenti dal subconscio). Fondamentali dunque complessi e coordinate liberamente strutturate per Composition 367C, che si apre con sonorità parcellari che nel “flusso canalizzatore” elettronico trovano rapidamente il loro Big Bang, e la performance prende corpo tra effimere falene e più corposi spettri, incarnate quelle più dai due strumenti femminili e questi dai pistoni di Bynum (speso molto estensivamente), che per fisicità e carattere più direttamente si interfacciano alle ance e chiavi di Braxton, che di queste si conferma sempre più disinvolto e poderoso ginnasta.


Alla fine dell’ascolto, si conferma abbastanza evidente una similarità tattico-strategica con molta produzione delle avanguardia elettro(nico)-acustica del Novecento (peraltro di spettro molto ampio la comunanza d’implicazioni teoriche) ma la tipologia espressiva di incisioni come questa appare pervasa da concise vigorie, energeticamente non altrettanto rappresentate nella controparte accademica.


Difficile considerare la presente incisione braxtoniana come esemplificativa del complesso corpus di speculazioni storico-sociologiche e politico-morali (come invece approfondito nel meritevole lavoro librario Blutopia), in parte per un relativo calo d’attenzioni verso la ormai troppo estensiva discografia del Nostro, ma parimenti non registriamo, in concreto, l’incombere di “ombre” o cali d’identità che (faccette a parte) sembra aver guadagnato ulteriore nitore, non rinunciando all’intrinseca ambizione e permanendo “utopistica”.