Intakt Records – CD 177 – 2011
Marilyn Crispell: pianoforte
Gerry Hemingway: batteria
La comune esperienza modellata per oltre un decennio nello storico quartetto di Anthony Braxton negli anni tra gli ’80 e i ’90 (completando la line-up con Mark Dresser) ha determinato una fisiologia simbiotica nella dualità armonico-melodico-ritmica (con tutte le peculiarità applicabili al caso de quo) costituita dalla pianista Marilyn Crispell e del batterista Jerry Hemingway, di cui non è mancato di seguire le estese attività individuali. Il tandem (a parte il notevole trio Cascades con Barry Guy) aveva già segnato una prima operazione “di coppia” nell’eponimo album del 1992 (per le polveriere di Knitting Factory), ma già le note di copertina avvertono come il ventennale gap, così come i caratteri delle fantasmagorie braxtoniane del periodo rappresentino un “punto di partenza troppo distante” per accostare le premesse e la genesi del presente Affinities.
Pulsioni, forze, impeti qui profusi fanno di tale incisione una preziosità sonora (che s’auspica non offuscata da lacune di distribuzione e accessibilità), potendola serenamente indicare quale un “must” di qualità e una testimonianza d’elevato profilo del suono libero, creativo e coltivato: i cristalloidi vivi gemmanti dalle corde tese di Crispell s’incastonano entro i reticoli argentei intessuti dalle bacchette di Hemingway: non è nozione nuova che il pianoforte sia, nelle sue essenza e meccanica, strumento a percussione così come in molte incarnazioni della batteria si potrà riconoscere l’ampia propensione melodica, ma non ravvisiamo in ciò gli unici o più determinanti elementi della simbiotica fisiologia del duo.
Le preziose capsule di suono, che mimano un po’ il piano-giocattolo, un po’ lo xilofono, la percussione “scivolosa”, compulsiva e a pelle tesa animano l’impressionante sviluppo e la brulicante vitalità di un brano centrale quale Starlings, centralità condivisa e magari superata dal travolgente Threadings, introdotto dalla secca e minacciosa batteria per assestarsi dinamicamente verso un eruttivo trionfo del coprotagonismo dei due, scintillanti per concentrazione ed effusione sonora in una iperbole percussiva che immagineremmo infinita in un’ipotetica (e ben auspicabile) performance live, trovando ristoro e antitesi nella vena lirica spezzata, eppur leggibile, del pianoforte che si modella lungo le linee essenziali e terse di Air (a firma di Frank Kimbrough ed unica track non ideata dal duo).
Alieno da meccaniche pleonastiche e violenze fuori scala, l’interessante album appare davvero molto distante (ma già vi si accennava) rispetto alle contemporanee uscite braxtoniane, e ad esse “complementare” in via assai poco intuitiva, e le Affinities del titolo chiamano in causa un’anima cameristica che tende però a dilatare finestre e scardinare, intonaci, tendaggi e orpelli delle “camere” costrittivamente intese, infondendo vita con gusto e ricerca mirata a un senso della libertà mai smarrito, introspettivo, impulsivo e comunque progressivamente inteso.