Foto: Andrea Buccella
We Want Michael: il Re del Pop secondo Enrico Rava.
Pescara Jazz. Teatro D’Annunzio, Pescara. 15.7.2012
Cosa hanno in comune Enrico Rava e Michael Jackson? A primo avviso, probabilmente niente. Il primo è uno dei veterani del jazz italiano, tra i più amati e sicuramente più noti all’estero; l’altro è stato lo straordinario cantante e ballerino, icona pop per migliaia di fan in tutto il mondo, che ha infranto tutti i record di vendite di dischi. Eppure un giorno succede che, tornando a casa da un concerto, Rava trova sua moglie che guarda alla tv il dvd del concerto di Bucarest di Michael Jackson e ne resta folgorato. La visione di quell’esibizione accende l’interesse di Rava per questo artista, portandolo a ricercare ed ascoltare tutto quello che lo riguarda.
«Conoscevo la musica di Michael Jackson sin da quando, negli anni ’70, vivevo a New York. All’epoca era ancora un bambino e militava nei Jackson Five, la band che aveva formato con i fratelli. Però l’ho sempre seguito in maniera marginale », ci rivela il trombettista in una breve intervista rilasciataci prima del concerto. «Solo recentemente ho capito di essermi perso qualcosa di musicalmente importante, quindi iniziare a suonare la sua musica mi è sembrato il passo più naturale da fare.»
Qualche tempo dopo, l’interesse di Rava per Jackson è diventato un progetto musicale intitolato We Want Michael, il quale vede il trombettista accompagnato dall’ensemble “Parco della Musica Jazz Lab”, una formazione di dodici elementi composta da alcuni dei migliori musicisti italiani. Questo tributo musicale ha esordito lo scorso anno proprio all’Auditorium di Roma, per poi passare da Perugia e Pescara in occasione del quarantesimo anniversario dello storico festival jazz abruzzese.
«Molta gente si sorprende che come jazzista abbia voluto omaggiare questo gigante della musica pop. In realtà è qualcosa che nel jazz è sempre avvenuto. Già negli anni ’60 Coltrane suonava My Favourite Things, un brano nato per un musical, così come lo stesso Miles ha reinterpretato Someday My Prince Will Come, canzone nata addirittura per un lungometraggio animato della Disney. Quello che facevano non era altro che suonare la musica pop di quei tempi. Piuttosto, non capisco perché da allora quel repertorio di brani, divenuti in seguito standards jazzistici, si sia cristallizzato. È ancora molto piacevole suonare brani come Stella by Starlight o My Funny Valentine, però è anche bello che i jazzisti vi aggiungano nuovi standards, pescando dalla musica pop contemporanea.»
Il concerto esordisce con Strangers in Moskow, brano nel quale la voce solistica di Rava si presenta alla platea con tutto il suo bagaglio di lirismo e poesia. «Ho ritrovato in questo brano, la forma del “call and response” che è alla base di molta musica africana e presente nelle prime forme di blues e jazz.»
They Don’t Care About Us è provvista di una intro tra le più riuscite dei preziosi arrangiamenti interamente messi in atto dal trombonista Mauro Ottolini. Il riff originale viene scomposto in un gioco polifonico in cui tutti gli strumenti interagiscono come in una piccola orchestra da camera. L’aspetto ritmico preponderante del brano ricorda il videoclip originale del 1997, che vide Jackson accompagnato dall’estesa compagnia di percussionisti brasiliani Olodum. L’inattesa svolta reggae che prende il brano dopo l’esposizione del tema, conferma questa inclinazione ed è seguita da un successivo interludio rock “urlato” al sax tenore dal giovane Dan Kinzelman.
Thriller, la hit di maggior successo di Jackson e celebre title track del disco omonimo che ancor oggi detiene il record assoluto di copie vendute, è introdotta da un solo alle percussioni del cubano Lopez Maturell che presto sfocia nel celebre riff eseguito dal sousaphone di Ottolini. Su di esso Rava si ritaglia uno spazio solistico sempre capace di mantenere una cifra stilistica riconoscibile all’interno di qualunque contesto. Ottolini passa al trombone sul finale per un solo energico ed ispirato.
«In realtà la musica di Jackson è già stata affrontata da altri jazzisti», commenta Rava.«Lester Bowie ha suonato Thriller con la sua “Brass Fantasy” e lo stesso Miles si è cimentato con Human Nature, confermando come la musica di Jackson fosse già adatta a questo tipo di restyling jazzistico.»
Potrebbe sorprendere la presenza di Smile all’interno di un tributo a Jackson. In realtà questo brano, in origine interamente strumentale, composto nel 1936 da Charlie Chaplin per il suo film Tempi moderni, è stato reinterpretato da Jackson nel suo album History del 1996. È il brano che più di tutti mette in relazione Jackson con la storia del jazz per la lunga serie di rivisitazioni che esso ha subito dai musicisti di jazz nel corso degli anni. Dopo la lirica esposizione del tema principale di Rava, la chiusura in stile “New Orleans”, affidata alla sezione ottoni di cui fanno parte anche le trombe di Tofanelli e Corvini, riporta alla mente l’atmosfera originale dei vecchi film in bianco e nero di Chaplin.
C’è spazio anche per il virtuosismo all’interno di questo tributo al Re del Pop, allorché il bassista Dario Deidda ridisegna interamente in “basso solo” la ballad I Just Can’t Stop Lovin’You, presente nel disco Bad del 1987. Il brano serve inoltre al bassista come trampolino di lancio per introdurre il famoso groove bassistico di Smooth Criminal. «Ho scelto questo brano perché il suo giro di basso mi fa letteralmente impazzire», commenta Rava.
La successiva Little Susie è probabilmente una delle punte compositive più alte e allo stesso tempo meno conosciute di Jackson. «Considero “Little Susie” un capolavoro. Per quel che mi riguarda avrebbe potuto anche essere scritto da Kurt Weill.»
Il brano infatti è un valzer dall’incedere solenne che vien ben reso dall’ispirata intro al pianoforte di Guidi, sottolineato dal clarinetto basso di Kinzelman. Il brano, anch’esso presente sul disco History, narra la tragica storia di una piccola mendicante orfana trovata misteriosamente uccisa. Un testo impegnato e sofferto che sottolinea quanto si sia più spesso preferito dare risalto al lato spettacolare e commerciale della musica di Jackson, mentre il pregio maggiore di questo tributo è proprio quello di aver posto l’attenzione su alcuni dei suoi dischi meno celebri come History o Invincible, evidenziando il raffinato gusto compositivo del Re del Pop.
«Trovo che da “History” in poi la sua musica si faccia molto più interessante. Jackson amava anche la musica classica e quella contemporanea, per questo inizia ad introdurre nella sua musica tutti questi elementi, comprese delle sezioni di cori. Credo che i dischi da History in poi, stiano alla musica di Jackson un po’ come il White Album stà alla musica dei Beatles», aggiunge Rava.
Blood on the Dance Floor, un moderno funky da pista da ballo, tratto dal disco omonimo, è condito da un solo di Deidda. Proseguendo, Privacy è un feroce attacco di Jackson alla costante pressione perpetrata dai giornali scandalistici, che spesso vedevano in lui e nei suoi comportamenti bizzarri una fonte inesauribile di pettegolezzi da sottoporre all’attenzione morbosa del pubblico, ben interpretato dall’attacco ruvido e graffiante della chitarra elettrica di Giannini e dallo specialista del registro acuto , Andrea Tofanelli.
History è un altro dei momenti più riusciti del tributo a Jackson: all’interno dell’originale presente sul disco omonimo, vi si ritrovano stralci di composizioni bandistiche e inni patriottici americani, che qui vengono ben riproposti e squisitamente riarrangiati dalla sezione ottoni. Alla intro segue una sezione rock più aggressiva che contribuisce a farcire il brano di spiazzanti ed irresistibili contrasti stilistici, rendendolo uno dei migliori della serata.
«Nella musica di Jackson ho ritrovato tutta la musica afroamericana. Dal gospel fino al funky, passando per il soul. Trovo ricchissima la sua musica. L’unica cosa che mi rammarica è quella di esserci arrivato tardi.»
A chiudere il cerchio giunge ora questa incisione per ECM, intitolata Rava on the Dance Floor che raccoglie una selezione di brani dai due concerti tenutisi a maggio e novembre del 2011 all’Auditorium di Roma.
Il progetto We Want Michael, oltre a celebrare un artista leggendario del pop, non è mai apparso come una pedissequa versione “jazzata” della musica di Jackson, quanto piuttosto ne ha esaltato le sue bellezze nascoste e l’insospettata complessità, ponendola in una più corretta prospettiva musicale lontana dai falsi luoghi comuni che spesso hanno circondato la figura del Re del Pop.