Foto: Francesco Truono
Roccella Jazz 2012. Una nuova vigilia (Parte I)
Al pari della Magna Grecia, e relativa costellazione culturale, che ne è stata la culla, Roccella Jonica e il simbiotico Festival Jazz hanno assurto pienamente alla dimensione del Mito, non solo per la popolarità di questa accreditata manifestazione musicale ma, appena spente le luci delle ribalte in cui si articola, anche per il tormentone che ha accompagnato quest’ultimo anno, fino a poche settimane orsono, considerata la temuta estinzione dello stesso Festival.
Nata nel già distante 1981 per volontà di personalità locali che hanno precorso e mantenuto una lunga strategia di sviluppo territoriale, articolata come vedremo fino ad oggi, la manifestazione giunge oggi alla trentunesima edizione dopo un difficile momento rappresentato sul versante mediatico dalle ansie sulla sua sopravvivenza, di cui solo in parte può rendere ragione lo stato di “crisi” del momento.
Certo, un eventuale scacco non da poco, considerato il patrimonio di presenze accumulato nelle varie edizioni, che hanno potuto vantare astri di caratura planetaria assortiti con figure nazionali di ruolo non certo secondario: la memoria, a caso, può spaziare da Charles Lloyd al Kronos Quartet, enumerando Joe Zawinul, Bill Frisell, Charlie Haden, Jan Garbarek, Louis Sclavis, Ornette Coleman, Ahmad Jamal, William Parker, Carla Bley, Steve Lacy e tantissimi altri che lo spazio non consente pienamente di onorare.
Jazz Convention ha inteso percorrere vie e percorsi roccellesi qualche settimana prima dell’avvio, ritenendo di reincanalarsi negli spazi (in realtà visitati da chi scrive in periodi anche molto diversi da quello estivo), rivivendo suoni, umori e colori dell’edizione precedente e provando ad immaginarne quelli in arrivo. Sempre chi scrive non ha mai davvero creduto ad una possibile fine del Festival, ma poiché non valgono unicamente le ragioni dell’istinto, della simpatia e del pronostico, era il caso di ripercorrere i luoghi già così solcati dallo spirito del jazz accompagnandosi a personaggi a vario titolo coinvolti nella manifestazione, con un occhio anche alla geografia umana e infrastrutturale.
Per approcciare i problemi organizzativi e le ragioni del dubbio destino di Roccella Jazz, JC ha inteso abbordare l’argomento iniziando dall’iperattivo Direttore Artistico, Paolo Damiani.
Jazz Convention: «Damiani, davvero Roccella Jazz ha rischiato di non veder riaprire i suoi battenti?»
Paolo Damiani: «In realtà sì: di base, era fondamentale accreditarsi per il bando triennale di sostegno da parte della Regione Calabria, e questo è divenuto certezza solo pochi mesi fa. Questo ha fatto sì che potessimo partire con la progettazione del Festival in quest’occasione con un ristretto margine di tempo rispetto alla sua apertura. Non è agevole muoversi in penuria di mezzi per quanto attiene alla macchina organizzativa e si ripropone l’ormai annosa questione del coinvolgimento di un forte sponsor privato a sostegno, com’è stato ottenuto ad esempio da Umbria Jazz. Tuttora non vi siamo riusciti, pur assicurando di esserci impegnati in ciò in modo ripetuto ed energico.»
Jazz Convention: «Vorremmo tratteggiare lo spirito generale del Festival anche alla luce della sua storia.»
Paolo Damiani: «Credo che molto dica il suo sottotitolo “Rumori Mediterranei”. Si è voluto con precocità e lungimiranza dar vita ad una manifestazione che oltre a forti presenze afro-americane, come dovuto, fosse imbevuta dei caratteri della varie culture del Mediterraneo. Visti i tempi di allora, l’azzardo è stato quello d’immaginare una tale manifestazione in una località non di prima visibilità e per giunta nel Sud d’Italia.»
Per quanto è dato ormai riscontrare, non potremmo dire che il Festival possa patire complessi d’inferiorità in quanto a programma (più che mai allettante in questa edizione) ed immagine locale. Roccella e dintorni appaiono regolarmente percorsi nel periodo festivaliero da un cospicuo numero di presenze, che possono trovare ricettività nelle articolate strutture locali, essendo coinvolti i Comuni limitrofi, e da tempo, non soltanto del far da polmone alle esigenze logistico-turistiche dei visitatori, ma nel farsi essi stessi attiva location, con articolazione in parallelo di più programmi.
Proseguiamo la conversazione con il vice Presidente della manifestazione, il professor Vincenzo Stajano
Jazz Convention: «Tentiamo di fissare il punto sullo stato dell’arte attuale del Festival?»
Vincenzo Stajano: «Per certi versi è un mistero la notorietà, e il riscontro, registrati da parte di appassionati e soprattutto istituzioni davvero molto distanti: cito solo il Wall Street Journal secondo cui si tratta di una delle più importanti manifestazioni del mese di agosto. A partire dagli anni ’80 si è voluta intraprendere una ricerca sulle culture del Mediterraneo, tracciata anche con un’attività sul versante cinematografico, adesso investita pienamente in ambito musicale. Da questo punto di vista è stato significativo il recupero dell’antico ex Convento dei Minimi, che oltre ad ospitare eventi di qualità destinati ad un pubblico ristretto, è sede di seminari di studio. L’esordio è avvenuto due edizioni fa con la presentazione del film dedicato a Tony Scott dal regista Franco Maresco, si è proseguito l’anno scorso con un convegno-seminario su Scott LaFaro, che come il precedente ha inteso sottolineare l’apporto degli italo-americano all’edificio del grande jazz. Ancora più da sottolineare il completamento del Teatro al Castello, di ampia capienza, e che ci risulta essere tra le ribalte europee più gradite da moltissimi musicisti americani.»
Aggiungiamo il grosso punto d’interesse dell’Auditorium, ultimato apposta per fornire ulteriore ribalta al festival specie in manifestazioni concertistiche intese in senso “classico” così come spettacoli di respiro più ampio e segnati da una componente teatrale.
Torniamo così al programma tenutosi nella scorsa edizione, che in quest’ultima sede ha visto avvicendarsi il progetto Epta di Nicola Piovani (personaggio distante dal jazz, la cui partecipazione ha comunque conferito ulteriore lustro), il peculiare duo Marcotulli-Biondini insieme alle voci, recitante nel caso di Chiara Caselli, e performante nel caso della cantante Elena Ledda, impegnati in un ideale percorso ispirato al mondo dell’Odissea, e lo spettacolo dedicato ad Andrea Emo con David Riondino con il Massimo Donà Quartet e Francesco Bearzatti.
Più articolati i concerti “open-space”, iniziati nella reggina piazza Castello con il duo Rea-Boltro seguiti da Al Di Meola in acustico che da anni continua a portare avanti la convincente realtà del suo World Sinfonia, quartetto etnico (d’ispirazione piazzolliana) a passaporto per metà italiano.
A seguire il Porto delle Grazie di Roccella, dove ha spiccato un tonico e coinvolgente quartetto di Lars Danielsson (privo della quinta unità Arve Henriksen) che, oltre alla batteria svenssoniana di Magnus Ostrom e la chitarra fusion di John Parricelli, inaugurava la collaborazione con l’estroso e talentuoso pianista armeno Tigran Hamsayan in un concerto che è parso magari perfettibile, ma almeno ha importato colori nuovi in una performance all’insegna di eleganza e freschezza.
L’arena centrale, ossia il Teatro al Castello, è stato sede di appuntamenti piuttosto convincenti tra cui potremmo ricordare l’efficace apparizione di una Roberta Gambarini piuttosto a suo agio tra una sorniona compagnia di veterani afro-americani, la performance di buona tenuta di Eddie Gomez, già coinvolto nel seminario rievocativo su LaFaro, la prestazione piuttosto colorita di una Cristina Zavalloni che si è prodotta con estrema generosità e colore secondo scelte che potranno non incontrare il gusto universale ma confermano il suo rendersi in crescendo personaggio trasversale e a tutto tondo. Peculiari per carattere gli spettacoli del Cello Samba Trio del brasiliano Jaques Morelembaum e, in compagnia di un fido e colorito manipolo di strumentisti da camera, la pièce su Ebrei & Zingari che conferma il carattere e lo stile di un protagonista delle nostre scene qual è Moni Ovadia.
Interpretiamo magari l’opinione di molti celebrando il particolare interesse suscitato dall’esibizione del magnifico ottantenne Ahmad Jamal, in palese forma e in compagnia d’eccellenza. Oltre alla lezione di percussionismo d’alta e smaltata classe di un piuttosto inossidabile Manolo Badrena, alla tenuta regolare del bassista James Cammack, soprattutto al drumming spettacolare e “impossibile” di Herlin Riley, il Grande Vecchio ha tenuto banco orchestrando e facendosi astutamente da parte, salvo poi intervenire con l’imperiosità della mano sinistra, consumata complice di una mano destra provocatoria ed elusiva, donando piena soddisfazione ad una plaudente audience che sanciva lo sghignazzante trionfo di uno tra i più grandi impuniti del jazz.
Anche – e soprattutto – questo è Roccella, e ne riprendiamo subito il percorso. coem vedremo nella seconda parte.