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Slideshow. Vittorio Mezza.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo puoi parlarci del tuo nuovo lavoro discografico?
Vittorio Mezza: Life process è un disco introspettivo ma al contempo desideroso di aprirsi il più possibile alla dimensione dell’altro. E’ un lavoro senza veli, in cui si cerca di esprimere nel modo più semplice la valenza di un vero e proprio duraturo rapporto, con lo strumento e con se stessi. La musica è qui intesa come processo di vita in cui i confini con l’arte si compenetrano a tal punto da identificarsi l’uno nell’altro in una dimensione parallela ma reale, e forse irreversibile.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
VM: I primi ricordi sono legati sicuramente a mia madre che mi ha fatto ascoltare musica sin dalla nascita. Parliamo della fine degli anni ’70, ricordo il sound delle canzoni di Battiato, De Gregori, Dalla, di alcuni brani di musica classica e, soprattutto, le numerosissime ed interessanti scorpacciate di colonne sonore dei film e dei cartoni animati dell’epoca.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?
VM: Senza dubbio la grandissima libertà creativa alla base di questa musica, le possibilità infinite che si presentano tutte nell’attimo stesso del processo improvvisativo: si ha una grande responsabilità nella scelta di poter suonare o sovrapporre qualsiasi nota o accordo o frase in qualsiasi momento nel tempo – fino alla determinazione pienamente oggettiva dei vari parametri nella loro forma e sostanza. Solo la coerenza e la costruzione di tanti momenti consecutivi formano un linguaggio strutturale musicale; le motivazioni, le emozioni, la fede e l’esperienza poi, ne scolpiscono i caratteri di senso al più alto grado.
JC: E più nello specifico un pianista?
VM: Da ragazzo ho iniziato a studiare musica classica avvicinandomi poi, naturalmente, al pianismo blues, rock, progressive e all’improvvisazione. Mi ha molto affascinato il primo impatto con lo strumento (lo descrivo parzialmente nella leggenda all’interno del booklet): dall’odore ai colori del legno, al meccanismo ‘magico’ di produzione del suono, al senso di scoperta e, successivamente, al desiderio di controllo totale del suono stesso. Crescendo infatti, ho intuito quanto fosse importante riuscire a dominare una vera e propria orchestra piegandola a sé ogni attimo e quanto ciò rappresentasse per me una potenzialità incredibile.
JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?
VM: Forse, se parliamo di una musica basata sullo sviluppo improvvisativo e sulla ricerca continua dei vari parametri del suono in un connubio di idee tendenzialmente innovative, esperienza, responsabilità, verità, coerenza e senso.
JC: Ma cos’è per te il jazz?
VM: È un grande rischio che vale la pena di correre! Rappresenta una possibilità che ci viene data nel tracciare la propria rotta in un oceano immenso, per riuscire ad esprimere davvero se stessi – sia a livello compositivo che improvvisativo – in maniera sempre diversa ma coerente.
JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
VM: Come accennavo, l’idea di libertà, creatività, possibilità di sviluppo, positività, vita, senso, interazione con gli altri, bellezza, verità, ipotesi di ecceità.
JC: Come pensi che si evolverà il jazz del presente e il jazz del futuro?
VM: Il jazz ormai è talmente aperto ad ogni altro tipo di musica che il discrimine è diventato soltanto la qualità e, successivamente, il gusto.
JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?
VM: Sicuramente il Vittorio Mezza Trio con Massimo Moriconi ed Ettore Fioravanti. Amo le piccole formazioni, in particolare il Trio sembra racchiudere un’alchimia misteriosa, basata su qualità individuali particolari che hanno senso solo nello sfociare in un’unica voce finale, respiro nell’esserci insieme.
JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
VM: Domanda difficilissima! Sicuramente dischi a cui associo i primi ricordi sia jazzistici che rock. Sono legato – al di là del tipo di sound più o meno puro a livello jazzistico – ad Offramp, Travels, Still Life (Talking) di Pat Metheny, infatti ne ho trascritto da subito alcuni brani grazie all’amico Angelo; ricordo poi con affetto brani dei Van Halen – l’assolo di synth di Jump, ad esempio, per i ragazzi che approcciavano alle tastiere rappresentava un richiamo incredibile (così come la chitarra di Eddie) -, di Jimi Hendricks, dei Doors, Led Zeppelin e Pink Floyd etc. etc., su cui iniziavamo ad aprirci alle prime improvvisazioni.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel pianoforte, nella musica, nella cultura, nella vita?
VM: Ce ne sono tantissimi, forse un gradino più sopra gli altri Hancock, Jarrett e Corea; Coltrane, Monk, Davis; i filosofi (tra le mie passioni velate), la profondità strutturale di Roland Barthes, il magico divenire di Gilles Deleuze..per chiudere con l’esempio di mia madre e mio padre.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
VM: Credo i vari concerti in Canada e negli Stati Uniti; è difficile dimenticare la gioia di un sogno che si realizza – quello di andare a vedere l’America! – nell’euforia di poter suonare la propria musica così lontano (tra l’altro con ottimi musicisti provenienti da diversi Paesi).
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
VM: Premesso che parliamo di musicisti al top, non ho molte preferenze, se si sta bene a livello umano è tutto più fluido e naturale; forse Massimo Moriconi ed Ettore Fioravanti ne rappresentano un esempio.
JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
VM: Innanzitutto un tour per promuovere Life Process (in autunno farò dei concerti in Africa). Poi questa estate stiamo organizzando un progetto in trio col bravissimo saxofonista tedesco David Milzow – conosciuto appunto a New York -, una collaborazione italo-tedesca che ha tutte le carte per risultare un’esperienza interessante e significativa.