Acrobats, un disco in bilico tra i confini del jazz.

Foto: Fabio Ciminiera









Acrobats, un disco in bilico tra i confini del jazz.


Tino Tracanna è uno dei veterani, nel senso più nobile del termine, del jazz italiano. A lui si attribuisce una discografia corposa e una serie di collaborazione prestigiose degne dei musicisti del suo lignaggio. Acrobats, ultimo disco e forse uno dei migliori della sua carriera, esplora territori e confini che gravitano attorno al jazz ma che non sono prioritariamente riconducibili a questa musica. Tracanna li fa suoi, li elabora e li riformula secondo un linguaggio proprio, moderno, imbastito di jazz. Viene fuori un disco fatto di tante idee, spunti e soluzioni musicali. Il cast che lo accompagna in questa ricerca è di primo livello e i risultati balzano all’orecchio già dalle prime note del disco.



Jazz Convention: Prima di introdurre il discorso su Acrobats facciamo un punto sulla tua produzione discografica e attività artistica.


Tino Tracanna: Questo è un momento molto ricco di idee e di progetti tanto che faccio fatica a seguirli tutti, ma questi momenti sono la realizzazione di tanto lavoro fatto prima e quindi bisogna seguirli con cura e dare il massimo. Dell’attività degli ultimi anni voglio ricordare alcune cose che ho fatto che ritengo buone come Un’Ora, album uscito nel 2010 e realizzato col mio quartetto diciamo “classico” (Colombo, Micheli, Petreni). Negli ultimi anni ho avuto collaborazioni discografiche oltre che con Paolo Fresu anche con John Tchicay, Garrison Fewell, Steve La Spina, George Cables, e Giovanni Falzone. Sono collaborazioni sfociate in interessanti produzioni discografiche. Altre collaborazioni sono state ispirate dalla mia attività d’insegnamento in Conservatorio. Mi è capitato di incontrare musicisti di grande qualità e quindi diventava naturale collaborare con loro e realizzare nuove idee come è successo in passato con Giovanni Falzone, Luigi Martinale, Gianluca Di Ienno, Ferdinando Faraò ed attualmente Dario Trapani , Massimiliano Milesi, Claudio Ottaviano e naturalmente Antonio Fusco che è presente in Acrobats



JC: Sei sulla scena jazz da circa trent’anni…


TT: È tanto tempo! Il fatto d’ incontrare all’inizio della mia carriera maestri come D’Andrea e poi quel talento che è Paolo Fresu ed incidere e collaborare stabilmente con loro mi ha fatto crescere e mi anche dato una certa visibilità permettendomi di incontrare molti altri musicisti. Accanto a queste esperienze è stata per me fondamentale quella col mio quartetto “storico”, gruppo che è insieme da parecchi anni e funziona a meraviglia



JC: Acrobats è il secondo disco per l’Abeat…


TT: Sì, il primo cd era Stylus, un lavoro molto ben riuscito, realizzato a quattro mani con il trombettista Giovanni Falzone. Giovanni si è iscritto al corso jazz del Conservatorio di Milano attorno al duemila e lavorando insieme tutte le settimane è venuto naturale collaborare prima nei suoi primi progetti e poi in Stylus. Il cd è stato molto ben recensito e il gruppo ha fatto alcune ottime performance live



JC: Come nasce Acrobats?


TT: Acrobats nasce abbastanza repentinamente circa un anno fa. Avevo alcuni spunti su cui lavorare e li ho sviluppati attorno ad una visione complessiva che ha determinato le linee generali del progetto. Viviamo ormai in una realtà babelica per linguaggi, riferimenti sociali, culture e tecnologie, situazione che ha molti aspetti inquietanti ma che è anche straordinaria dal punto di vista delle possibilità creative. Il salto del millennio si fa sentire e la possibilità sia mentale che tecnologica di relazionarsi facilmente con linguaggi lontani o comunque diversi tra loro rappresenta certamente un territorio estremamente interessante di ricerca. Del resto il jazz ha nel suo DNA la capacità di elaborazione e sintesi immediata della realtà circostante, anzi direi che questa caratteristica è la sua linfa vitale. Così in Acrobats sono presenti sonorità etniche, libere citazioni colte e naturalmente diversi elementi stilistici e formali del jazz che ne costituiscono l’ossatura sostanziale.



JC: Hai messo insieme un super gruppo formato da Ottolini, Cecchetto, Dalla Porta, Fusco e te … .


TT: Sono tutti musicisti molto importanti e dalle straordinarie qualità artistiche. Paolino Dalla Porta lo conosco da una vita, abbiamo fatto insieme parecchie cose ed è un fenomeno assoluto del contrabbasso; con Roberto Cecchetto ci lavoro da relativamente poco tempo ma lo trovo semplicemente straordinario. Mauro Ottolini l’ho sentito la prima volta a Brescia un po’ di anni fa e mi aveva fatto subito una grossa impressione. Ci siamo trovati a meraviglia a duettare nella registrazione. Antonio Fusco invece è un altro dei fortunati incontri che ho fatto in Conservatorio nei corsi jazz. Ha portato alla registrazione un contributo essenziale. Secondo me farà una gran carriera. Nel momento in cui ho avuto l’idea di Acrobats mi è venuto naturale mettere insieme questi musicisti



JC: Suoni sia il sax tenore che il soprano. Quale dei due preferisci di più e perché?


TT: Non potrei fare a meno di nessuno dei due ma indubbiamente li vivo in maniera molto diversa. Il soprano mi viene più facile e lo sento molto funzionale al mio linguaggio. È lo strumento che ho usato prevalentemente per questa registrazione. Trovo che la sonorità del soprano insieme al trombone, (abbinamento che ho già utilizzata in lavori precedenti come La Forma Delle Cose), sia molto efficace ed interessante. Inoltre il soprano è in grado di richiamare suggestioni timbriche che ormai sono parte irrinunciabile del mio suono complessivo. Col tenore ho invece un rapporto più complesso probabilmente perché è uno strumento più carico di storia che tende a spingerti verso un linguaggio più idiomatico dal punto di vista jazzistico e quindi meno flessibile rispetto alle cose che sto facendo in questo momento coi miei progetti. Dopo tanti anni mi sento però vicino a una “risoluzione” che in determinati momenti emerge chiaramente e che mette insieme la parte più legata alla tradizione con le mie progettualità più aperte, cosa per me molto importante perché il tenore rappresenta l’aspetto più corporeo del mio linguaggio ed è quindi una componente indispensabile della mia identità musicale



JC: I brani sono tutti scritti da te. Ce li puoi commentare?


TT: Quasi tutti i brani sono stati scritti di getto per il gruppo. Fa eccezione New Mind Lines, già presente in Stylus (Abeat). In generale ho cercato di utilizzare meno lo schema tema/soli/tema a favore di un iter musicale all’interno del quale gli elementi si sviluppassero più orizzontalmente arricchendosi di elaborazioni lungo il cammino, più che riproporsi circolarmente. Si tratta di un approccio compositivo che mi interessa e che vorrei portare avanti. Ho inoltre cercato, quando era possibile, di “asciugare” i temi, riducendoli a volte a piccoli nuclei che avessero comunque un contenuto formale di una certa forza ma che nello stesso tempo potessero rendere la musica più maneggevole, “acrobatica” e libera da interpretare così da valorizzare al massimo le qualità dei solisti



JC: I prossimi progetti discografici?


TT: Oltre ad Acrobats è in uscita un lavoro che sto seguendo da almeno un paio di anni in collaborazione con Walter Buonanno, un giovane DJ meglio conosciuto come Bonnot, che ama lavorare anche su territori lontani dal suo specifico. Anche a questo progetto partecipa Roberto Cecchetto un musicista del quale ho già decantato le lodi ma che possiede anche un’interessante trasversalità di linguaggio, qualità che è stata particolarmente utile per questo lavoro che ha l’obiettivo di comporre elementi sonori provenienti da aree musicali lontane ed apparentemente incompatibili. Come puoi immaginare questo lavoro si è incrociato con la preparazione di Acrobats e, pur avendo i due progetti sound diversissimi, si sono di fatto influenzati a vicenda creando una curiosa ed anomala sinergia che ha arricchito entrambi, tanto è vero che ci sono alcuni nuclei compositivi in comune.