Io sono Tony Scott

Foto: Fabio Ciminiera





Io sono Tony Scott.

Chieti. Chieti in jazz 2012, Auditorium Palazzo De’ Mayo. 20.10.2012


Nell’ambito della edizione 2012 di Chieti in Jazz è stato proiettato Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz, il film dedicato a Tony Scott da Franco Maresco. La vita e la carriera straordinarie del clarinettista italo-americano Anthony Joseph Sciacca, originario di Salemi, cittadina in provincia di Trapani, vengono affrontate attraverso diversi piani di narrazione per seguire tutte le linee di una esperienza davvero fuori dal comune. Stefano Zenni nell’introdurre la proiezione ha utilizzato il paragone con Citizen Kane, Quarto Potere, di Orson Welles: e, in effetti la ricostruzione, le interviste, i contributi ruotano intorno a Tony Scott per disegnare in modo completo il ritratto, senza nascondere nessun punto di vista. Il tono ironico – anche se decisamente molto più amaro – e certi spunti e accostamenti di immagini la potrebbero rimandare anche a Zelig di Woody Allen.


Il materiale si può dividere in prima battuta in diverse categorie: interventi della voce fuori campo di Franco Maresco; una quantità enorme di interviste realizzate dal regista con Tony Scott; gli interventi delle persone che sono state vicine al clarinettista, le mogli e le figlie; i contributi portati da critici, operatori del settore e musicisti; una variopinta galleria di filmati di repertorio e fotografie di Tony Scott.


La prima immagine e gli ultimi momenti del film in qualche maniera portano una spiegazione del sottotitolo. Il film si apre con l’irridente intervista di Paolo Bonolis a Tony Scott nel corso di un suo programma e si chiude con la comparsata in un film di Chiambretti e le parole – amare, a posteriori – del presentatore che, sulle prime, credeva che il nostro millantasse le incisioni discografiche a fianco di mostri sacri come Billie Holiday, Charlie Parker, bill Evans e Harry Belafonte. Senza dimenticare il fatto che la salma di Tony Scott è ospite della cappella di famiglia di un cugino nel cimitero di Salemi, in attesa che la giunta comunale decida se e quando costruire un monumento funebre dedicato al clarinettista.


L’Italia – scelta come approdo da Tony Scott negli anni ’70 – ha espresso senza dubbio tutto il suo repertorio di “affetto” e “dedizione” nei confronti di un artista decisamente fuori da ogni possibile classificazione stilistica e umana. Sono le tre mogli e le due figlie a definire il lato bohémien del clarinettista: capace di grandi slanci e di assenze totali, di rinunciare al lavoro con Harry Belafonte e ai relativi ed importanti cachet per tornare a fare il musicista di jazz ad Harlem. Soprattutto, capace di affrontare fino in fondo le dolorose conseguenze, negli anni novanta, quando cerca di farsi ospitare di casa in casa fino a sfiorare i limiti della vita da clochard.


Sicuramente in tutto questo c’è la predisposizione tutta italiana nel non valorizzare un’esperienza come quella di Scott, a non rendere il giusto onore alle persone quando sono ancora in vita. Dall’altra, però, ci sono, ineffabili e infaticabili, l’irrequietezza, la curiosità, la voglia di andare oltre i luoghi comuni della persona: qualità che non si sono fermate mai e che non hanno portato Scott ad accettare approdi sicuri quando si sono presentati, a non fare mai compromessi. Il ritratto di Maresco ci offre, grazie alle parole stesse del clarinettista, la lucida consapevolezza di una vita picaresca, vissuta secondo i principi che egli stesso aveva sempre seguito e stabilito. Il confronto con Buddy De Franco in occasione di un summit di clarinettisti tenuto a New York all’inizio del nuovo secolo è rivelatore quanto stridente: da una parte un uomo che tutto ha vissuto, tutto ha provato e tutto porta su di se, nel modo di suonare, nel modo di presentarsi, e un signore che ha accettato con elegante savoir faire i fasti del passato, accettando pro e contro del fatto di essere stato uno dei musicisti più importanti degli anni cinquanta.


Tony Scott è arrivato tra l’altro in Italia nel periodo per lui peggiore – nel 1968, vivendo in pieno la turbolenta stagione degli anni ’70 – in cui la divisione tra tradizione e avanguardie è stata, oltre che molto netta dal punto di vista musicale, ancor più significativa dal punto di vista ideologico. Nel suo stile si uniscono virtuosismo, una conoscenza diretta del jazz statunitense e una ricerca curiosa e priva di punti rigidamente codificati: pur non appartenendo, pur non potendo appartenere in modo specifico a nessuna delle due aree, finì con il suonare jazz tradizionale e con il rimanere imprigionato in una dimensione non sua. Le registrazioni pubblicate dalla Philology con Franco D’Andrea o con Renato Sellani forse restituiscono, tardivamente, un fatto musicale più consono. In pratica, si potrebbe interpretare così il sottotitolo, il clarinettista è arrivato nel posto sbagliato con venti o trent’anni di anticipo e questo lo ha portato a uno scontro con una realtà asfittica da cui è uscito perdente.


Il concetto di vecchia gloria non può essere affiancato a Tony Scott e questo sin dall’inizio della sua carriera – ricostruita nel film soprattutto dalle fotografie e dalle parole del clarinettista. Anche quando si è trovato all’apice del successo con la sua orchestra, arrangiatore e direttore musicale per Harry Belafonte, amico intimo di Billie Holiday, di Charlie Parker, di Ben Webster e di tutti quelli che hanno fatto la storia del jazz, scopritore di talenti come Bill Evans e per diversi anni di seguito miglior clarinettista secondo i referendum di Down Beat, Scott ha sempre cercato di esplorare nuove dimensioni culturali e musicali. Se abbiamo già accennato alla rinuncia del ruolo con Belafonte, altri esempi vengono dai lunghi soggiorni in Africa e Estremo Oriente alla ricerca di nuove sonorità ed espressioni, dalle sue incisioni dedicate a coniugare musica e meditazione per una sorta di new-age e world music ante litteram, gratificata, soprattutto, da una enorme quantità di copie vendute di questi lavori.


Il film di Franco Maresco non omette nulla – per quanto, come anticipato da Zenni, molto materiale sia rimasto fuori dalle due ore abbondanti della pellicola – ed evidenzia le contraddizioni palesi, sconcertanti e, purtroppo, insolute fino alla morte. Le interviste manifestano la costante duplicità di ogni situazione in cui Scott si è trovato, l’accostamento immediato di grandezza e dissipazione. Il terrore con cui organizzatori e musicisti iniziano a pensare alle esibizioni di Scott è un’altra delle chiavi italiane con cui si è distrutta la figura di questo musicista. Altra lettura è quella del provincialismo al contrario: vale a dire, non essendosi creata a suo tempo una “leggenda Tony Scott”, il fatto di vivere in Italia lo rende immediatamente uno dei tanti. Anche se, viene da pensare, l’essere a suo modo una leggenda già in vita non ha salvato nemmeno un personaggio del calibro di Chet Baker. Resta il fatto che la difficile gestione del clarinettista, le sue continue bizzarrie ed intemperanze, hanno portato un contesto già poco disponibile a coincidere occasioni a risolvere in maniera quasi sprezzate e, per tornare all’immagine di apertura, irridente il proprio rapporto con un musicista enorme per spessore ed esperienze.


Io sono Tony Scott è realizzato in maniera superba, oltre che per la dovizia di materiale raccolta e prodotta da Franco Maresco anche per la gestione della musica: l’abbinamento tra immagini e brani scelti rende al massimo ogni passaggio del film sia esso emozionale, lirico, introspettivo o pirotecnico come alcune delle esibizioni finali proposte in video amatoriali o registrati dalle televisioni locali. La visione, come si può immaginare, lascia molti interrogativi aperti e spazio per riflessioni sul personaggio ma anche sul modo con cui in Italia viviamo il fatto artistico e i personaggi meno categorizzabili. Maresco usa le debolezze e le peculiarità di Tony Scott per mettere in risalto quelle della nostra nazione in un gioco aspro, icastico e divertito, attraverso lo sguardo brutale del suo verismo.