David S. Ware – Saturnian (solo saxophones, vol. 1)

David S. Ware - Saturnian (solo

AUM Fidelity – AUM060 – 2010





David S. Ware: saxello (#1); stritch (#2); sax tenore (#3)






Tra le ultime prove di scena di un navigato esponente del sax tenore: David S Ware, classe 1949, già grande precorritore delle scene chicagoane e quindi migrato su quelle newyorkesi, il più probabile prosecutore del lirismo carnale e di ricerca alla Coltrane e delle tensioni curiose di Ayler, di cui ha rappresentato una critica (re)incarnazione, ci lascia alla vigilia del suo 63esimo compleanno, arresosi alla sua annosa malattia e dopo averci dato l’illusione, nell’ultima manciata di anni, di una ripresa in maggiore della sua forma esecutiva e delle sue visioni.


Facendo più recentemente quadrato con le potenti personalità di William Parker e Matthew Shipp (oltre alla partnership con l’ottimamente trovato Joe Morris), producendosi con essi non troppo avaramente sul piano discografico, l’ultimo lustro aveva salutato con larghi spunti d’interesse produzioni di casa nipponica, quali il sostanzioso quartetto Shakti e il più raro doppio vinile lituano Live in Vilnius, che segnavano il mantenimento del percorso spirituale precocemente intrapreso e rigorosamente mantenuto e l’omaggio alle culture orientali e a certi padri di un jazz diversamente inteso tra i quali appunto Coltrane o Sun Ra.


Di sonorità chioccia e urticante, certo accentuate dall’emissione di getto e un po’ selvaggia del raro saxello, Muthone è il brano che apre l’album, e se da un lato potrà richiamare le stoccate speculative dei solos braxtoniani, ci fa impattare con decisione su un acting performante che è insieme meditazione dinamica e contemplazione attiva – cosa del resto annunciata senza modestie nelle brevissime note di copertina: «Quando ascoltate, imparate ad aprire il terzo orecchio, ascoltate la voce all’interno della musica: io espanderò chi voi pensiate di essere». Lasciando nelle due orecchie “d’ordinanza” la sensazione di essere al cospetto con il lato crudamente animale e provocatoriamente pensante degli strumenti d’ottone, l’esplorazione prosegue nel secondo Pallens, eseguito allo stritch (di morfologia conica affine al soprano ma d’estensione pari al tenore), lungo flussi eruttivi e picchi lancinanti, estendendosi lungo un mood più teso e dolorosamente interrogativo.


A conclusione della performance (Anthe) s’imbraccia il più consueto e praticato tenore, affrontato in sonorità sbeccate, e l’Io narrante, concedendosi una più dilatata punteggiatura, a nervi scoperti affronta ed aggredisce una densa cortina di spaesamento spirituale.


Chi si fosse ultimamente interrogato sullo stato di salute fisica di questo vigoroso protagonista lo ritroverà nell’ultima fase di ritrovato benessere senza poter troppo dubitare delle rinnovate energie, a testimonianza di un egocentrismo piuttosto tranciante eppur condivisionale, a siglare un’operazione fintamente immodesta in cui si mixano sperimentata intelligenza e sofisticato feeling.