Le rotte della Musica: intervista a Damir Imamovic

Foto: Amer Kapetanovic





Prosegue con l’intervista a Damir Imamovic, la pubblicazione di alcune delle interviste che hanno costituito il materiale di partenza de Le rotte della musica, libro realizzato da Fabio Ciminiera e pubblicato da Ianieri Edizioni. Il volume è un racconto corale, animato da musicisti, organizzatori, fotografi ed altri protagonisti: personaggi anche distanti tra loro per sonorità e intenzioni, ma uniti dalla ricerca di sintesi originali. Un affresco attuale e, soprattutto, aperto a tante prospettive diverse del panorama musicale dell’area mediterranea. Le rotte della musica è anche su myspace: www.myspace.com/lerottedellamusica


Fabio Ciminiera. La prima domanda riguarda il Damir Imamovic Trio… partirei dalla forma molto particolare del trio, composto da voce e chitarra, contrabbasso e violino: parliamo dei suoni del trio e di come sono suddividisi i ruoli al suo interno…



Damir Imamovic. All’inizio della mia carriera professionale, avevo scelto di esibirmi in solo, semplicemente chitarra e voce, come usavano gli antichi musicisti bosniaci di Saz. Amo questa dimensione minimalista, all’interno della quale ogni elemento della canzone appare svincolato da arrangiamenti troppo ridondanti. Non mi piacciono i rumori, i volumi forti, e penso che le canzoni siano creature timide e abbiano bisogno del minor numero possibile di strutture intermedie per venire fuori dal silenzio. Dall’altra parte, come ogni musicista amo le persone e, soprattutto, suonare con le persone: mi sono sentito da solo sul palco e ho voluto mettere su una formazione minima che mi aiutasse a espandere le mie storie. Ho scelto contrabbasso e violino perché mi trovo molto bene con i musicisti che li suonano, rispettivamente Edvin Hadzic e Vanja Radoja. I ruoli che abbiamo assegnato agli strumenti, e anche alla voce in alcuni passaggi, sono totalmente non ortodossi nell’ambito della sevdah. Questa formazione ha corso i suoi rischi, all’inizio, perché la musica tradizionale balcanica non è esattamente il genere utilizzato per sperimentare. Se in qualche modo è normale che un jazzista prenda dei temi della tradizione per riarrangiarli come uno standard, è sicuramente meno comune per un musicista di sevdah giocare con la propria tradizione. Diverse volte, al termine di un concerto, si sono avvicinate persone per dirmi: “Ehi, mi è sembrato di sentire dei tamburi durante il concerto” oppure “Ho sentito una fisarmonica, a un certo punto.”e per domandarmi come mai questi strumenti non fossero presenti nel concerto. questo mi ha insegnato come le persone percepiscano quello che ascoltano in relazione davvero stretta con le loro precedenti esperienze e i loro gusti e credo che il minimalismo del trio dia molta forza questo aspetto perché lascia molte cose non dette ma con dei fortissimi suggerimenti. Un aspetto molto importante per me è vedere come possa reagire a questi spunti il pubblico internazionale e come li possa leggere considerando il fatto che, come è ovvio, non sono permeati della tradizione della sevdah.



FC. Il punto di partenza della tua musica è la sevdah e le canzoni popolari della Bosnia, ma la tua scrittura accoglie influenze da diversi tipi di musica: come lavori nella composizione delle tue canzoni?



DI. Crescendo, ho ascoltato le cose più differenti. Ricordo che, durante l’assedio di Sarajevo, le persone tiravano fuori le cose dai loro appartamenti per venderle nei mercati e capitava di trovare tantissimi nastri e vecchi dischi… Così ho cominciato a conoscere ogni cosa che mi sembrava interessante: in particolare John McLaughlin e le sue molte formazioni, soprattutto Shakti con Zakir Hussein; ma anche Ravi Shankar, Ali Akbar Khan e altri musicisti indiani; ovviamente i grandi del jazz, specialmente Keith Jarrett. Il mio mondo è cambiato definitivamente quando ho scoperto Anouar Brahem. Oltre alla sevdah, la musica di Brahem è stata la principale ragione per cui ho abbandonato gli studi di filosofia e ho cominciato a suonare professionalmente. Questa maniera eclettica è un qualche cosa dal quale cerco di tirare fuori la mia musica, qualunque cosa questa finisca per essere. D’altro canto, la sevdah è senz’altro la mia passione principale e il mio punto di partenza: la maggior parte delle volte il mio lavoro consiste nel riarrangiare la musica della mia tradizione. Le mie composizioni maturano lentamente e lavoro su diversi temi prima di trasformarli in qualche cosa che possa suonare per un pubblico.



FC. Come hai inserito il jazz e la musica contemporanea nei suoni della tradizione?



DI. E’ molto interessante come, di recente, sia arrivato molto vicino a considerarmi un musicista di “fusione”. C’è un paradosso: si pensa di solito che la fusione non possa avere una propria tradizione visto che nasce dall’atto di combinare elementi e non come genere in quanto tale. Ma questo non è vero, dal momento che, in primo luogo, questo metodo ci ha dato tantissima musica di enorme valore e sento di appartenere alla tradizione della fusione e, in secondo luogo, ogni tradizione è già il risultato di precedenti processi di fusione, non c’è una musica pura. Entrambi questi punti sono estremamente importanti e, quando affronto il processo creativo, mi suggeriscono entrambi lo stesso concetto e, allo stesso tempo, rappresentano quello che io voglio ottenere: cercare di scavare quanto più possibile all’interno degli elementi tradizionali per scoprire legami con altre tradizioni. Per fare un esempio, ho scoperto un vecchio disco di Vilayat Khan con Alla Rakha, credo si intitolasse Raag Bhairavi, in cui, a un certo punto, suonano alcuni dei temi che costituiscono la natura intima della sevdah bosniaca. Sono stato in grado di scoprirlo solo dopo aver esplorato molti modi diversi di suonare gli stessi elementi: ne sono rimasto letteralmente elettrizzato e, ora, quando arrivo a un vicolo cieco, cerco di trovare una soluzione utilizzando questo metodo.



FC. L’attenzione alle emozioni è una caratteristica della tua musica. Viene da una tua attitudine a sottrarre? oppure è una naturale evoluzione del tuo stile di comporre?



DI. Onestamente, non saprei. La musica ha le sue connessioni intime con le emozioni, può trasportarle, produrle, crearle dal nulla, ma io sinceramente non so come si possa essere “emozionali” o “non-abbastanza-emozionali”. L’unica cosa che so per certo è che una performance emozionale danza sempre sul limite di essere patetica, sovrabbondante o disonesta. La Sevdah, nelle sue espressioni più felici, è sia musica che poesia e quando raggiunge i suoi vertici sublima tutto le cose che sono coinvolte. Alcune persone percepiscono questo fatto come un’attitudine riservata ed è un qualcosa che non sono abituati a sentire nella musica dei Balcani. Il processo di sottrazione di cui parli fa parte degli aspetti tecnici della scrittura, una abilità se vuoi, una parte del processo artistico, ma ovviamente non è l’unico modo per arrivare al risultato.



FC. Le parole delle canzoni ti aiutano a stabilire una connessione diretta con le emozioni e con il pubblico?



DI. E’ abbastanza strano a dirsi, ma solitamente no. Intendo dire che il pubblico al di fuori della mia regione di solito non comprende le parole. Succede un po’ come per gli attori: pronunci le parole correttamente e cerchi di esprimere i sentimenti nel momento in cui vuoi sottolinearlo, alla fin fine il significato delle parole non produce un effetto diretto in me. Intendo dire che, per quanto riguarda i testi, quando canto, io racconto storie, i fatti che canto non sono accaduti direttamente a me: è la maschera con cui spavento le persone senza, però, spaventare me stesso. Ma, allo stesso tempo, sono estremamente conscio di indossarle e di indossarle al termine di un lungo processo artistico, personale e, anche, emozionale che ho costruito con i testi e le sensazioni dei brani.



FC. Sei stato tra i protagonisti del progetto Sevdah r1’p>bl1k. Come era strutturato e quale era la sua direzione musicale?



DI. Purtroppo Sevdah r1’p>bl1k non esiste più: per diverso tempo, attraverso questo progetto, abbiamo dato vita a una serie di concerti a Sarajevo. Io stesso ho cominciato ad esibirmi e ho cominciato, anche, a produrre altri concerti. Ma continua la sua esistenza in quello che accade alla sevdah oggi con una nuova generazione di musicisti che cresce e che porta nuovi elementi alla musica: sono molto contento di aver avuto un ruolo in questo processo. L’idea era quella di creare una specie di sevdah club che funzionasse a tutti gli effetti come un jazz club, con jam sessions, concerti di gruppi o di solisti, musicisti alla ricerca di una propria cifra al di là degli aspetti pop della sevdah. E’ stata una di quelle cose che avrebbero potuto avere un impatto molto forte e duraturo se ci fosse stata la possibilità di proseguire per qualche anno il lavoro. Ma, purtroppo, il denaro porta le persone a perdere il proprio entusiasmo e a cambiare la visione delle cose e così il progetto è stato abbandonato dai suoi sponsor.