Slideshow. Stefano Profeta.

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Slideshow. Stefano Profeta.


Jazz Convention: Stefano, anzitutto puoi riassumerci brevemente la tua carriera artistica?


Stefano Profeta: Non è semplicissimo, è piuttosto articolata, sono passato attraverso diverse “fasi”, diversi periodi musicali; sono nato come chitarrista classico, sono approdato alla chitarra elettrica per poi appassionarmi alla musica etnica, in particolare indiana: ho suonato il sitar e le tabla. Tracce di questa fase musicale ci sono nei primi dischi che ho registrato. Poi si è fatta strada l’idea del contrabbasso e da lì è partita la gran parte delle mie collaborazioni artistiche e professionali più interessanti ed importanti.



JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


SP: La Musica è sempre stata presente a casa mia in ogni forma: i miei genitori suonavano e ascoltavano di tutto, dalla musica classica a quella popolare; e se ne sentiva davvero tanta di musica insieme: non ho posseduto un televisore fino all’età di trent’anni! I miei primi ricordi da musicista “attivo” risalgono a quando, a sette o otto anni provavo a fare i primi accordi sulla chitarra insieme a mio padre. Insomma, ho avuto una famiglia sempre molto sensibile nei confronti della musica, dai miei genitori, appunto, poi con mio zio Renato, pianista in gruppi beat degli anni ’60, fino ad arrivare a parenti più lontani come Rubino Profeta, compositore, musicologo e direttore artistico dal 1972 al 1974 del teatro S. Carlo di Napoli.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


SP: Direi, musicalmente parlando, la mia tendenza alla “variazione”: già da piccolo mi divertivo a reinterpretare gli esercizi di chitarra o ad armonizzare i solfeggi cantati. Fondamentalmente, quindi, il motivo principale credo sia dar sfogo alla creatività.



JC: E un contrabbassista in particolare?


SP: Mah… nel mio peregrinare attraverso gli strumenti ho trovato nel contrabbasso sia un suono che mi emoziona sempre, sia un ruolo musicale che mi appartiene: mi piace stare, per dirla con John Patitucci, nel centro esatto della musica.



JC: Ha ancora un significato oggi la parola jazz?


SP: Assolutamente sì: non ho mai considerato il jazz un genere, quanto piuttosto un atteggiamento mentale nei confronti della musica. Il jazz è il mondo dell’improvvisazione, dell’atto compositivo istantaneo, al di là dei linguaggi, degli ensemble strumentali o delle strutture più o meno complesse su cui opera.



JC: E quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


SP: Beh, ciò che ritengo più emozionante nel “sentire” in jazz è la possibilità di ricavare spazi liberi per la propria creatività: con questo intendo non soltanto i momenti solistici, ma anche, e forse soprattutto, la libertà di creare ad esempio una linea di accompagnamento stimolante per gli altri musicisti con cui sto suonando. Il jazz è unico anche nell’interplay che si può venire a creare in un gruppo: è un delicatissimo equilibrio tra libertà personale e funzionalità ad un insieme: se vogliamo è un ottimo modello per una società ideale.



JC: Tra i molti dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


SP: Forse perché è stato il primo, forse per la situazione “pioneristica” in cui è stato registrato, ma che ha visto coinvolto tutto il gruppo in uno sforzo positivo ed entusiastico, ti direi Rome-Istanbul con Alberto Mandarini.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nel contrabbasso, nella musica, nella cultura, nella vita?


SP: Per quanto riguarda il contrabbasso il mio Maestro è stato Franco Feruglio, al Conservatorio di Alessandria. Per la musica, per il jazz in particolare, devo molto ad Alberto Mandarini, Claudio Saveriano e Luigi Ranghino, che, oltre ad arricchire la mia cultura musicale facendomi scoprire molta musica interessante, mi hanno anche fatto capire, con il loro esempio personale, che avrei potuto vivere di e con la Musica. Mi hanno sempre sostenuto e dato ottimi consigli.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


SP: Non ne ho uno in particolare. In generale direi quando ho avuto la sensazione di aver fatto un buon concerto.



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


SP: Oltre a quelli già citati, tutti quelli con cui si crea quell’equilibrio magico di cui si parlava prima: Fabrizio Trullu o Marco Detto ad esempio.



JC: Siamo alla fine dell’intervista: parlaci dei tuoi impegni futuri.


SP: Dopo un’estate di tour pop culminata poco tempo fa a Lampedusa al festival O’ Scià sul palco con Claudio Baglioni, riprendo un percorso più jazzy con due serate al Blue Note di Milano con Eugenio Finardi, oppure a dicembre a Casale Monferrato un Love Song con Gianluigi Trovesi fino ad arrivare a fine gennaio con un concerto, all’interno del prestigioso festival Linguaggi Jazz a Torino, in un progetto di Daniele Tione con trio jazz e quartetto d’archi.