Growing, primo disco da leader del pianista Simone Daclon.

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Growing, primo disco da leader del pianista Simone Daclon.


Simone Daclon, giovane e promettente pianista di stanza a Milano, ha dato alle stampe per la casa discografica Abeat il suo primo lavoro da leader in trio. Gli sono accanto il contrabbassista Marco Vaggi e il batterista Paolo Orlandi. Growing trasuda da ogni nota quelle che sono le caratteristiche dell’arte pianistica di Daclon, un jazz che guarda avanti inglobando tradizione e modernità.



Jazz Convention: Simone Daclon, parlaci un po’ di te, del tuo essere pianista, delle tue influenze, dei tuoi riferimenti nell’ambito del jazz…


Simone Daclon: Il mio percorso pianistico è un po’ complesso…. Ho iniziato da bambino con il pianoforte, poi sono entrato alle scuole medie del conservatorio. Non studiavo molto la classica, mi perdevo già nei ragtime di Joplin, nel suonare e cercare di improvvisare su canzoni, e nei primi ascolti di jazz. Entrato al liceo poi ho tentato brevemente di seguire due strumenti, per alcuni anni ho studiato contrabbasso, fino a diplomarmi. Non ho mai smesso di suonare il piano – iniziavo già a suonarlo nei primi gruppi. E’ stato dopo la maggiore età che ho deciso di studiare il piano jazz e di farne definitivamente il mio strumento. I miei riferimenti, che ho ascoltato fin da ragazzino, erano Monk, Bud Powell e il pianismo di Ellington. Partendo da loro e dagli altri pianisti di quel periodo, ho fatto presto a scoprire, andando avanti e indietro nel tempo, tutti gli altri da Jelly Roll fino ai giorni nostri. Ne apprezzo molti oramai: è difficile dire se ascolto più Tatum o Flanagan, Tyner o Jamal, o i contemporanei…, sono veramente diventati tutti punti di riferimento da cui imparare molte cose. Quando mi siedo al piano, dato che non ho una padronanza tecnica “classica”, mi ispiro molto all’idea di quei pianisti compositori come Monk, Silver, Ellington, che avevano sviluppato una tecnica personale, più che altro per dare un suono e una direzione ai propri gruppi e alle proprie composizioni.



JC: Growing è il tuo primo disco da leader in trio.


SD: Growing è stato il primo disco in cui ho deciso e scritto i brani, esponendomi come leader e cercando di esprimere un mio mondo musicale. In realtà qualche anno fa c’è stato un precedente disco a mio nome, in collaborazione con Michele Bozza al sax, un maestro del jazz milanese che meriterebbe più riconoscimento in Italia, a cui devo molti insegnamenti. Quel disco, però, fu fatto su commissione da parte di un etichetta giapponese, per cui abbiamo potuto metterci poco di nostro, c’era più che altro una scaletta fatta soprattutto di standard da rispettare. Growing, invece, l’ho concepito io, mosso da un’esigenza personale, quindi si può dire che è il mio primo disco da leader a tutti gli effetti.



JC: Come è nato, quanto tempo ha richiesto la sua gestazione, registrazione e la scelta della casa discografica.


SD: E’ nato come un primo esperimento, perchè volevo fermare qualcosa di una crescita musicale personale, che mi auguro continui, in mezzo a tanti cambiamenti che avvengono, anche nella vita. I brani sono stati scritti in modalità diverse, alcuni di getto, altri li avevo in cantiere da alcuni anni e volevo finalmente registrarli. Fin da ragazzino, mi è sempre piaciuto scrivere musica, e ho pensato che sarebbe stato giusto metterne insieme un po’ e farne un album, senza lasciare che mi passasse di mente. Dopo aver raccolto il materiale, le prove e la registrazione sono state molto veloci, nel giro di un mese. In studio a registrare siamo stati solo due giorni, di cui il primo è quello da cui viene la maggior parte dei brani. Nei mesi successivi, dopo un po’ di riascolti, mi sono occupato di rifare qualcosa del mixaggio e parallelamente lo proponevo a qualche etichetta. Poi, grazie ad Antonio Zambrini, ho conosciuto Mario Caccia, che si è interessato molto al master e a distanza di un anno dalla registrazione il disco è uscito.



JC: Parlaci dei musicisti che hanno partecipato alla realizzazione di Growing.


SD: I musicisti della ritmica sono Marco Vaggi al contrabbasso e Paolo Orlandi alla batteria. Fin dalle prime volte che abbiamo suonato ho sentito che erano molto affiatati, e che mi era facile articolare un discorso insieme a loro. Marco per me è tra i migliori contrabbassisti italiani. In tutti gli anni che ho seguito il jazz, l’ho visto suonare e ascoltato nei dischi con i migliori pianisti e solisti, e sono stato felicissimo che abbia accettato di partecipare. Avevamo fatto poche date con questa formazione, sporadicamente, quindi non ero convinto che tutti avrebbero voluto registrare insieme. Paolo, invece, oltre ad essere un grande batterista, è anche un grande amico da tempo, e abbiamo la stessa età. Mi ha aiutato molto anche nella realizzazione pratica del disco, anche se da più di sei anni sta a New York, ed è in Italia solo per alcuni periodi. Fin da quando si iniziava a suonare in giro, più di dieci anni fa, tutti sapevano già che era un vero talento della batteria. Poi, da quando si è trasferito ha avuto modo di consolidarsi collaborando spesso anche con grandi nomi del jazz, ad esempio Patitucci.



JC: La gran parte dei brani che fanno parte di Growing sono a tuo nome, poi ci sono delle cover: ce li puoi commentare?


SD: Si, c’è uno standard del repertorio del jazz tradizionale che è I surrender, Dear, di cui ho voluto dare una versione con un tempo più largo; poi ci sono due brani di due grandi pianisti e compositori come Cedar Walton e Tadd Dameron. Di On a misty Night ho voluto dare una versione più frenetica, arrangiata diversamente dall’originale. In fondo al disco c’è un brano a cui sono molto legato, Alfonsina y el mar di A. Ramirez, compositore argentino che è mancato pochi mesi prima che registrassi. Ho deciso di inserirlo come un omaggio, riarmonizzandone solo il tema. Le mie composizioni appartengono a diversi momenti della mia vita, ognuno ha una sua storia. Falso Baião, il primo del disco, l’ho pensato quasi dieci anni fa, come un brano ispirato al Brasile, con molti spazi su diversi pedali del basso. Un’altro è Ministeps, un pezzo d’atmosfere quasi pop, che ho concepito nel periodo in cui mio figlio muoveva i primi passi. Poi c’è Sillology, che vuole essere una dedica dichiaratamente “silly” ai brani del bebop, uno stile che tuttora mi piace praticare… insomma, sono diverse esperienze che ho messo insieme.



JC: Cosa ne pensi del jazz italiano?


SD: Il jazz italiano sicuramente gode di buona salute, dato che nel nostro paese continuano a nascere musicisti davvero bravi, sempre di più con le nuove generazioni. Tra i giovani c’è un ottimo livello, e sicuramente c’è ancora troppa disparità di guadagno economico tra quei pochi musicisti che il pubblico da tempo riconosce e gli altri mille, che, nonostante la loro arte, per qualche motivo non riescono a imporsi sul mercato. Certo, questo nel nostro paese non avviene solo nel jazz, ma un po’ in tutti i campi, artistici e non. Un’altra cosa a cui dovremmo fare attenzione, forse in questo la critica per prima, è a non considerare il jazz italiano come un genere a sé, creando dei fenomeni che poco hanno a che fare col resto del mondo. Se si vuole mantenere questa musica viva, credo non si debba frazionarla nei generi dei vari paesi, ma tentare di unificarla, ponendosi al livello degli altri di continuo, dato che oggi ne abbiamo i mezzi. Questo sforzo l’hanno fatto per primi gli americani, che da tempo si sono aperti alla visione del resto del mondo, anche se per me rimangono sempre i depositari del jazz più autentico.



JC: Hai nuovi progetti in cantiere?


SD: Vorrei continuare il discorso del trio, registrando qualcos’altro a breve, magari anche cercando una direzione un diversa e con un ospite in qualche brano. Allo stesso tempo, dato che da sempre mi piace suonare in formazioni più ampie e accompagnare i solisti, continuo con gli altri gruppi dove faccio da “sideman”, sperando a breve di registrare e partecipare propositivamente, con altri pezzi originali.