Slideshow. Mauro Patricelli

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Slideshow. Mauro Patricelli.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Mauro Patricelli?


Mauro Patricelli: Un mio insegnante di pianoforte mi definì una volta “arrampicatore”. Si riferiva a una certa mia abilità nel salire sugli alberi. Alcune parole però persistono nella memoria e credo che nonostante la sua accezione negativa, il termine, nel senso lato della sfida, mi si addica.



JC: Ci parli del tuo nuovo cd Cite-peau?


MP: Partirei dal titolo. Cite-peau è una espressione inventata usando due parole francesi: Cité (che si riferisce ad un’aera o costruzione delimitata e che ha una propria vita urbana, culturale, ecc.) e Peau che significa pelle e fa riferimento ai tamburi, gli strumenti a pelle, appunto. Il sottotitolo Works for Drums and Piano dovrebbe chiarire meglio l’intento. Il Cd, in cui le parti di batteria sono tutte scritte, rappresenta un repertorio di brani espressamente composti per la batteria moderna.



JC: Hai appena usato un accostamento tra due termini – “batteria” e “moderna” – che ormai in pochissimi fanno, come mai?


MP: Dopo più di un secolo dalla sua “invenzione” e nonostante una paletta sonora e un vocabolario enormemente sviluppati, la batteria moderna è ancora oggi impiegata principalmente come strumento di accompagnamento. Il compito di elevarla a un livello di espressività solistica è affidata esclusivamente alla creatività dei virtuosi dello strumento. Nessun compositore si era dedicato finora a scrivere specificamente per la batteria.



JC: Quindi si è trattato di un approccio nuovo?


MP: In questo mio lavoro ho cercato quindi di trattare la batteria come un vero strumento solista e ho trattato l’interazione col pianoforte in una maniera che definirei cameristica. Non sarebbe stato possibile senza il continuo feedback di Chano Olskær, che suona nel Cd e che mi ha assistito in questo lavoro per più di cinque anni. Devo anche molto a Simone Cavina, batterista imolese, con cui ho iniziato il progetto nel 2005 prima di trasferirmi in Danimarca.



JC: Ci racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


MP: Fra i miei primi ricordi musicali c’è quello di mio nonno che suona l’organetto diatonico dopo il pranzo di Natale. Ero colpito dalla potenza sonora dello strumento e dall’agilità delle sue mani che pure avevano i segni evidenti del lavoro manuale in campagna e certe macchie scure tipiche in chi ha a che fare con l’uva e il vino. L’altro particolare che ricordo di quei momenti era l’insofferenza dei miei genitori e degli zii che sbuffavano poiché sostenevano che il nonno ripeteva troppe volte gli stessi passaggi. A distanza di tanti anni penso che quella situazione mostrava chiaramente la frattura fra due concezioni musicali e due culture: quella contadina e arcaica di mio nonno, che viveva la musica come un elemento rituale e come una espressione della vita stessa a confronto con la cultura moderna dei miei genitori dove la musica aveva assunto una funzione estetica e di intrattenimento e che quindi esigeva altre modalità espressive e in cui la ripetitività rituale aveva perso la sua funzione.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista?


MP: La fascinazione per l’abilità digitale sullo strumento piuttosto che l’interesse per il suono. Non ho avuto una precoce esposizione alla musica e tuttora ritengo di avere un mediocre “orecchio musicale”. Ricordo però che alle feste di paese quando venivano delle cover-band (all’epoca chiamate “orchestre”) che suonavano un repertorio misto di canzoni pop e di liscio, rimanevo incantato a guardare le mani dei chitarristi. Una volta un chitarrista mi ha anche maltrattato poiché lo avevo fissato molto a lungo!



JC: E in particolare un pianista?


MP: Ho iniziato a suonare la chitarra intorno ai 12 anni. Al pianoforte mi sono avvicinato poco più tardi, quando ho pensato che fosse importante imparare a leggere le note e mi sono rivolto al mio insegnante di musica delle scuole medie. Lui, pianista, mi fece noleggiare un pianoforte per studiare il solfeggio cantato. Ero al primo anno di scuola superiore e mi “tuffai” nella musica classica. La passione per il jazz è arrivata molto più tardi.



JC: Come ti definiresti: jazzman, improvvisatore, performer, compositore o altro ancora?


MP: Compositore e performer. Anche se ho iniziato tardi a studiare musica mi sono rapidamente diplomato in pianoforte classico, a 19 anni. Dopo alcuni anni di perfezionamento ho iniziato a maturare una grande insofferenza per il mondo della musica classica. Ho iniziato così a fare dell’improvvisazione. Attingevo soprattutto dal mio background classico e dal progressive-rock che avevo ascoltato molto da ragazzino. Solo molto più tardi mi sono avvicinato al jazz prima da autodidatta poi studiando un paio di anni al conservatorio di Bologna.



JC: In effetti sei più noto per l’attività di compositore…


MP: Alcuni colleghi mi dicono che dovrei presentare di più in pubblico il mio materiale improvvisativo. Sono al momento un po’ reticente, tendo a considerare l’improvvisazione una dimensione quasi privata mentre in quella pubblica privilegio la composizione. Uno dei motivi è che sono interessato principalmente all’improvvisazione libera, che ritengo mi dia la possibilità di esprimere certe idée musicali al meglio, ma penso che sia un tipo di materiale che chiede molto all’audience e che quindi richieda un contesto particolare.



JC: Restando sull’improvvisazione, cos’è per te il jazz?


MP: Il jazz è una musica che combina complessità e immediatezza allo stesso tempo, tradizione e ricerca sperimentale. Un linguaggio a più livelli che esprime appieno la cultura statunitense ma che ha presto acquisito un alto grado d’internazionalità.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


MP: Recentemente riflettevo sull’idea comune secondo la quale l’improvvisazione è un elemento fondamentale del jazz. Non sono del tutto d’accordo. Penso piuttosto che l’improvvisazione in senso lato sia una prassi di creazione estemporanea alla base di tanti generi musicali. Spesso l’improvvisazione rappresenta uno stadio preliminare del lavoro, a porte chiuse, che poi prenderà la forma di un pezzo strumentale, una canzone, una composizione sinfonica. L’improvvisazione reale a mio avviso è qualcosa di piuttosto magmatico e indefinito che non ha molto a che fare con gli assoli jazz i quali possono raggiungere livelli di perfezione linguistica ed estetica altissimi.



JC: Mi sembra che tu veda la questione diversamente dai jazzologi?


MP: Penso che nel caso del jazz si possa parlare di un tipo di composizione basata sull’oralità piuttosto che sulla scrittura. Sotto questo punto di vista si potrebbe paragonare il jazz alle musiche tradizionali contadine. Un altro aspetto importante del jazz è lo sviluppo di una teoria musicale molto sofisticata. Anche quest’aspetto mostra a mio avviso che il “cuore” del jazz è la composizione e non l’improvvisazione.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


MP: Due: Scura maje, il mio primo disco, con la cantante Diana Torto e il violinista Anton Berovski e questo ultimo, Cite-peau col batterista Chano Olskær.



JC: E tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


MP: The Köln Concert di Keith Jarrett.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


MP: Nella musica Béla Bartók e Chick Corea. Nella cultura Alan Lomax. Nella vita Paperino (che qui in Danimarca si chiama Anders And) e poi mia moglie Patrizia. Frequentavamo insieme il liceo scientifico a Francavilla al Mare, lei era già al quinto anno mentre io solo al terzo, le ho chiesto cosa significasse “esègeta” e lei mi rispose: “si pronuncia esegèta! Il significato vattelo a cercare sul vocabolario!” Da allora amo molto i vocabolari.



JC: E i pianisti che ti hanno maggiormente influenzato?


MP: Keith Emerson e Keith Jarrett.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


MP: Non penso molto alla carriera come a qualcosa di bello quanto a qualcosa di utile per poter fare il mio lavoro e comunicare le mie idee (e quelle di altri). Se penso a un momento davvero bello mi viene in mente un giorno in cui ho comprato due mazzuole per percussioni e mentre aspettavo l’autobus per tornare a casa battendo sulla panchina mi è venuto in mente il tempo composito 2+3+2+3+3+1+2+2. Si tratta di una battuta con otto pulsazioni il cui valore equivale a 18, multiplo di 3 che quindi permette di sovrapporre al complesso tempo principale una figura isoritmica molto semplice e che in quanto tale tende a “spodestare” il tempo principale… Decisamente un bel momento!



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


MP: Le mie collaborazioni si basano per lo più su questa dinamica: invito altri musicisti a suonare le mie cose insieme a me. Di solito la faccenda richiede molto più tempo del previsto. Potrei quindi generalizzare dicendo che amo collaborare con musicisti pazienti oltre che di talento.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?


MP: Penso che la scena musicale italiana vanti dei musicisti di livello altissimo. Sembrerebbe quindi in buona salute. Quello che piuttosto mi preoccupa è la percezione che in Italia la funzione di tutta la musica si stia sempre più polarizzando verso l’accademismo da un lato e l’intrattenimento dall’altro. Questo credo sia causato dallo scenario sociale ed economico. In Italia la musica jazz esiste, economicamente parlando, solo quando è suonata, e quindi quando è diventata un prodotto vendibile. Non ci sono concrete possibilità per avere soldi per comporre. Inevitabilmente i musicisti sono costretti a fare progetti semplici e di breve termine poiché l’investimento sul lavoro creativo è tutto a carico loro. Facendo un paragone è come se le medicine fossero finanziate solo dal momento in cui arrivano negli scaffali delle farmacie senza considerare il lavoro di ricerca. Nel settore della musica classica invece sia per quanto riguarda I compositori che gli interpreti, mi sembra che le rigide strutture mentali delle accademie siano troppo dominanti.



JC: Vivendo tu in Danimarca che differenze trovi nella vita musicale tra i due Paesi?


MP: Credo sia molto difficile avere un punto di vista oggettivo poiché pur vivendo in Danimarca ho un retroterra culturale italiano. Un mio amico danese che ha vissuto e lavorato in Italia per diversi anni sostiene che in Danimarca i musicisti sono “viziati” poiché prima d’iniziare un progetto musicale ne aspettano il finanziamento da parte delle istituzioni. Sempre secondo lui in Italia il musicista, non potendo fare affidamento su supporti istituzionali, deve ripiegare solo o soprattutto sulla propria motivazione e capacità di rimediare le risorse. Semplificando lui dice che in Danimarca il musicista prima aspetta i soldi e poi fa musica. In Italia il contrario. Sono in parte d’accordo ma se da un lato la situazione italiana favorirebbe una sorta di selezione basata sul grado di motivazione e di “urgenza” espressiva dall’altro rischia di attuare anche una selezione non sempre basata sulla qualità. A volte le idee più interessanti non sono necessariamente le più robuste. Persino dal punto di vista puramente tecnico e stilistico un ambiente troppo competitivo tende a favorire lo sviluppo di una maniera di suonare particolarmente “bravuristica” che ha soprattutto lo scopo di dare all’occhio.



JC: E più in generale nell’organizzazione della cultura in Danimarca (e in Italia)?


MP: In Danimarca esistono almeno due istituzioni pubbliche fondamentali: il Kunstfond e il Kunstråd. Sono un’emanazione del ministero della cultura ma ne sono distaccate per garantirne l’indipendenza. La prima finanzia il lavoro artistico creativo e si rivolge principalmente al singolo artista. La seconda finanzia la produzione e si rivolge principalmente a gruppi stabili o teatri ma si può fare domanda e ottenere finanziamenti anche in qualità di singolo artista. L’aspetto burocratico è molto snello e la trasparenza è assoluta. Sul sito web dell’ente appare la lista di coloro che hanno ottenuto i finanziamenti e di quanti soldi hanno ricevuto.



JC: E oltre Kunstfond e Kunstråd?


MP: Un altro ente finanziatore importante è KODA (la SIAE danese). KODA contribuisce in vari modi alla vita musicale. Premetto che non me ne intendo di economia ma un dato che emerge paragonando Danimarca e Italia è che KODA (che così come la SIAE funziona come una specie di fisco musicale) pur agendo in un’economia musicale di un paese di soli 5.000.000 di abitanti è in grado di finanziare la vita musicale con cifre molto alte oltre che di pagare diritti d’autore con uno standard di generosità imparagonabile a quello della SIAE. La SIAE invece pur ricevendo nelle sue casse i diritti pagati da una nazione di quasi 60.000.000 di abitanti non solo paga malissimo la stragrande maggioranza dei suoi soci ma è anche in grave deficit apparentemente per aver elargito negli anni “50 pensioni auree e addirittura ereditabili ad una casta di suoi impiegati.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?


MP: Ho tre progetti principali sul tavolo…



JC: Partiamo dal jazz?


MP: In ambito jazz ho un lavoro in trio in cui rielaboro una serie di composizioni strumentali di Gershwin. Il Gershwin delle canzoni non m’interessa molto. L’idea di base di questo progetto è di prendere spunto dagli elementi più “europei” presenti in alcuni suoi brani strumentali e che rimandano alle origini della sua famiglia ebreo-ucraina.



JC: E per la composizione diciamo colta?


MP: Nel campo della musica contemporanea ho un grande progetto appena finanziato dal Kunstfond danese. È una mia video-opera che sarà rappresentata in otto repliche a novembre 2013 a Copenaghen presso il Københavns Musikteater. Il titolo dell’opera è Syng for fremtiden, ingeborg! (Canta per il futuro, Ingeborg!) ed è un lavoro intorno alla figura di una cantante popolare danese, che “scoperta” dall’etnomusicologo Thorkild Knudsen (il cui lavoro è paragonabile a quello di Diego Carpitella o Alan Lomax in Italia) è diventato un piccolo caso nazionale nel 1970. Ora è totalmente dimenticata ma visitando gli archivi musicali danesi sono rimasto affascinato dalla figura di questa donna che cantava quasi esclusivamente nella stalla mentre mungeva o in cucina e che poi è diventata l’informatrice più importante della Danimarca e ha permesso di registrare e salvaguardare un repertorio di ballate popolari antichissime.



JC: Il terzo?


MP: Ho anche un progetto concettualmente simile in Italia, per voce e ensemble, si chiama Qualcosa di ‘Mbina, parla dell’Abruzzo e presenta un testo tratto da Colomba (chiamata appunto ‘Mbina) di Dacia Maraini. Sarà presentata al teatro di Ortona il 15 dicembre 2013.