Foto: Fabio Ciminiera
Slideshow. Slivovitz.
Jazz Convention: Ci dite qualcosa sull’album Bani Ahead uscito per la newyorchese Moonjune?
Slivovitz: Bani Ahead, a differenza dei primi due, è un album pensato per essere una reale fotografia del gruppo nel momento in cui lo abbiamo registrato. Tutti i pezzi del disco sono stati scritti nell’anno immediatamente prima la sua pubblicazione. I primi due album sono frutto di un lavoro meno consapevole, e in un certo senso sono più eclettici. Bani Ahead è un lavoro a nostro avviso più coerente e solido. È stato registrato tutto in presa diretta, in una settimana in campagna, a Buccino (Salerno) presso lo Zork Studio (Buccino) da Daniele Chiariello e missate a Sorrento da Peppe de Angelis con apparecchiature vintage. L’impressione è che la campagna schiarisca le idee
Jazz Convention: Come definireste la musica del gruppo?
Slivovitz: È seriamente un problema che non ci poniamo mai, siamo in sette e ognuno porta le sue esperienze ed i suoi gusti personali, la matrice etnica in alcuni pezzi gioca un ruolo fondamentale così come la ricerca di strutture articolate ed il gusto per l’improvvisazione collettiva, tendenze più proprie di ambienti vicini a un certo rock strumentale ed al jazz. Ma il risultato è sempre difficile da prevedere, il nostro lavoro in sala consiste soprattutto nell’arrangiamento di temi e strutture che vengono proposte da un singolo membro; a volte il risultato è molto distante dalla proposta originale, dipende tutto dall’umore e dall’ispirazione del momento. Alcune volte la musica sembra trovare subito la sua forma finale, altre volte invece i pezzi possono rimanere in lavorazione per diversi mesi.
Jazz Convention: Ci raccontate come, quando e perché vi siete formati?
Slivovitz: Ci siamo formati nel settembre 2001, in quel periodo scendevamo giù a suonare in strada e durante una di queste jam nacquero gli Slivovitz. Non c’è nessun perché al di fuori della voglia di suonare e di stare insieme, col tempo e con i concerti le motivazioni sono chiaramente cambiate (ed anche la formazione del gruppo), ma cerchiamo di non perdere il contatto con lo spirito degli esordi, per quanto possibile.
Jazz Convention: Quali sono i motivi che vi hanno spinto a diventare musicisti?
Slivovitz: La passione… e un certo masochismo.
Jazz Convention: E in particolare ad abbracciare il jazz e la sperimentazione?
Slivovitz: Al di là della attrazione istintiva che questa tradizione musicale ha esercitato su tutti noi, c’è da dire che il jazz è un passaggio quasi obbligato per chi fa musica strumentale, soprattutto perché la cultura americana dal dopoguerra in poi è, insieme con quella del rock anglosassone, una delle più influenti per il mainstream musicale occidentale. In particolare l’improvvisazione, pur essendo una pratica comune a moltissime tradizioni musicali popolari extraeuropee e non jazzistiche, ha trovato nella tradizione afroamericana una formalizzazione molto dettagliata specialmente a partire dagli anni Quaranta in poi, tale approfondimento nella formazione di un musicista moderno è ormai un passaggio inevitabile.
Jazz Convention: Cos’è per voi la musica?
Slivovitz: Diversi di noi hanno cominciato a suonare già da molto piccoli, per cui la musica è sempre stato un ambiente naturale, un territorio di confronto e di conoscenza ma anche di competizione e di crescita personali. Siamo molto diversi nell’intendere la musica perché siamo persone molto diverse, nonostante questo di rilevanza assoluta il fatto che dieci anni di musica passati insieme hanno creato una sensibilità comune ed uno straordinario “attaccamento alla maglia”. Probabilmente per noi è più facile imbracciare gli strumenti e suonare che cercare di spiegare a parole una sensazione così istintiva e naturale.
Jazz Convention: Quali sono invece le idee, i concetti o i sentimenti che associate al jazz?
Slivovitz: Anche questo è un punto controverso : per noi il Jazz più che un genere musicale è un attitudine, una pratica da coltivare costantemente cercando di non farsi chiudere troppo in una definizione o in un altra. Il concetto che più rappresenta il nostro modo di vedere il jazz è probabilmente quello dell’interplay. Non importa se si ascolta il quartetto di Coltrane, gli ensemble elettrici di Davis, i Weather Report o i più recenti Tim Berne o Marc Ducret, il filo lungo il quale corre la tradizione jazzistica è quello del interpretare collettivamente la dinamica del pezzo nel momento in cui la musica è in fieri. Nei concerti improvvisiamo moltissimo, anche se poi sul disco tutto risulta cristallizzato in una forma complessa e articolata. Ma dal vivo non ci facciamo mancare mai niente…
Jazz Convention: E tra i dischi che avete ascoltato quali portereste sull’isola deserta?
Slivovitz: Marcello Giannini: Queen “Live Killers”; Ciro Riccardi (tromba): Tom Waits “Swordfishtrombones”; Riccardo Villari (violino): Jimi Hendrix “Band of gypsies – Live At Fillmore East”; Derek Di Perri (armonica): The Rolling Stones “Let it Bleed”; Pietro Santangelo (sassofoni): John Coltrane “Coltrane’s Sound”; Salvatore Rainone (batteria): Miles Davis “Live Evil”.
Jazz Convention: Quali sono stati i vostri maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
Slivovitz: Troppi decisamente per citarli tutti…
Jazz Convention: Qual è stato il momento più bello della vostra carriera di gruppo?
Slivovitz: Ce ne sono stati diversi molto belli e coinvolgenti, tra i più belli ricordiamo l’apertura del concerto di Buju Banton a Napoli nel 2003, la prima esibizione allo Sziget Festival di Budapest nel 2004, una settimana di concerti a Barcellona nel 2007, l’esibizione a Nisville Jazz Festival del 2010 prima dell’esibizione del quintetto di Roy Hargrove. Ma anche gli innumerevoli viaggi in furgone in giro per l’Italia e l’Europa, situazioni meno celebri, che magari non fanno curriculum ma che cementano le esperienze e con esse, la musica.
Jazz Convention: Quali sono i musicisti con cui vorreste collaborare?
Slivovitz: Derek Di Perri: Jack White; Marcello Giannini: John Zorn; Ciro Riccardi: Michel Godard; Pietro Santangelo: Rabih Abou Khalil; Riccardo Villari: Maxim Vengerov;
Jazz Convention: Come vedete la situazione della musica, e più in generale della cultura in Italia?
Slivovitz: Purtroppo non ci vuole un’analisi molto approfondita per capire che la situazione musicale e culturale Italiana è in crisi totale. L’immensa ricchezza culturale del nostro paese non trova sbocchi, e del resto molto è imputabile a delle politiche culturali deludenti. È fin troppo palese che se si continuano a tagliare indiscriminatamente i fondi alle organizzazioni dei Festival queste continueranno a puntare sempre su nomi di richiamo piuttosto che sulle nuove e interessantissime realtà che ci sono in Italia. Fortunatamente esperienze collettive come quelle del Franco Ferguson a Roma, del nostrano Crossroads Improring o del Mediterraneo Radicale di Bari, continuano a tenere viva la scena underground. Lì ci si può sentire ancora parte di qualcosa di vivo e originale.
Jazz Convention: Cosa state progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
Slivovitz: Stiamo progettando un video live in studio nei prossimi mesi, siamo alla ricerca di uno spazio abbastanza grande per potere ospitare un po’ di pubblico così da avere un documento che davvero fotografi l’energia che mettiamo nelle nostre esibizioni. Per tutto aprile, poi, saremo a Berlino per qualche serata li’, e soprattutto per conoscere la scena musicale di quella che in questo momento ci sembra la città europea più viva e in crescita e magari per sondare le possibilità di organizzare un tour estivo questa volta tra Berlino e Parigi. I primi di maggio torneremo a Napoli per partecipare ad una rassegna che si terrà nella cornice meravigliosa della Cappella San Severo, con un concerto preparato per l’occasione a metà tra composizioni originali ed estemporanee improvvisazioni.