Foto: da internet
Marzo all’Auditorium
Auditorium Parco della Musica, Roma
12 marzo: Musica Nuda
20 marzo: Gregory Porter
21 marzo: Hermeto Pascoal
Tre grandi appuntamenti nell’arco di una decina di giorni caratterizzano le proposte di marzo dell’auditorium Parco della Musica di Roma. Tre progetti diversi tra loro per provenienze, stili e formazioni, ma accomunati da una matrice jazz ben riconoscibile.
Per festeggiare i dieci anni di attività, il 12 marzo sbarca a Roma il duo composto dalla voce di Petra Magoni ed il contrabbasso di Ferruccio Spinetti in quel fortunato ed originale progetto chiamato Musica Nuda, per l’occasione vestito della marimba di Daniele Di Gregorio. Nato quasi per caso, i due artisti hanno registrato sei dischi e un Dvd spogliando ed reinterpretando in maniera del tutto personale brani dal repertorio lirico, pop, soul e jazz. La formula, apparentemente troppo scarna per poter funzionare a lungo, ha invece pian piano riscontrato giustamente i favori di pubblico e critica di mezza Europa, riuscendo dopo dieci anni a destare ancora curiosità ed interesse. L’uscita quest’anno del nuovo lavoro Banda Larga rappresenta una piccola svolta, con il duo accompagnato dall’Orchestra da Camera delle Marche ed affiancato da ospiti e firme illustri. Novità quasi inevitabili per dare nuova linfa al duo e presentate, pur se in forma ridotta, proprio in questo breve minitour. In realtà appare subito evidente che il tutto si poggia sempre sulla formidabile voce della Magoni, che sul palco sembra quasi riposseduta in una energia fuori dal comune. La sua voce si sposa idealmente con il contrabbasso di Spinetti, puntuale ed elegante come suo solito, ed anche gli interventi del polistrumentista Di Gregorio non dispiacciono, anche se non aggiungono quel quid necessario ad una virata sostanziale. Le originali rivisitazioni ricche di sperimentazioni vengono messe da parte per un repertorio più vicino alla musica d’autore con riletture più fedeli di Tenco, Dalla, Buscaglione fino alla superclassica Bellezze in bicicletta, dove i vocalizzi della Magoni restano il punto di forza. Non convincono invece i brani originali composti per il duo dai pur bravi vari autori che si alternano nel disco, da Pacifico alla voce dei Baustelle Francesco Bianconi, in cui nemmeno le doti della cantante pisana riescono ad impreziosire dei motivi troppo lenti. E dunque, ancora una volta, le cose più interessanti sono i momenti più sostenuti con il contrabbasso distorto in Another Brick In The Wall dei Pink Floyd o il bis finale di una accattivante Roxanne dei Police, ideale per scatenare il pubblico e la voce di una sempre notevole Magoni.
Un altro cantante, a distanza di una settimana, è la figura di spicco di un concerto altrettanto atteso. Qui la voce è quella baritonale della nuova stella del jazz americano Gregory Porter, già ammirato in Italia per tutta l’edizione invernale dell’Umbria Jazz Winter di Orvieto. Elegantissimo nella sua stazza imponente dall’inconfondibile barba e immancabile caschetto, il giovane cantante di Los Angeles è accompagnato da un quartetto strabiliante per freschezza e modernità, dando vita ad uno show molto curato che appassiona dalle prime note. Il repertorio è tutto incentrato sui brani dei soli due album fin qui pubblicati in cui soul e funk vengono miscelati da sfumature jazz e gospel in un connubio facile ma non banale e che è comunque valso ben due nomination ai Grammy in entrambi i casi. La calda voce di Porter, in uno stile personale che ricorda per certi versi sia Nat King Cole ma anche Gil Scott-Heron, riesce ad emozionare sia nei tempi lenti, come nella dolce ballad Be Good, sia nei ritmi funk della conclusiva 1960 What?, in cui tira fuori dal cilindro una vitalità contagiosa. In mezzo tanti omaggi ai classici de jazz come Bye Bye Blackbird, Work Song o la Black Nile di Wayne Shorter, intervallati da brani originali non meno accattivanti. Ma è tutto l’insieme a girare a meraviglia: Porter lascia giustamente largo spazio ai suoi compagni in cui spiccano gli interventi di un eclettico Yosuke Sato al contralto splendidamente supportato da Aaron James al contrabbasso e Emanuel Harrold alla batteria in una ritmica da sogno, completati dal piano essenziale di Chip Crawford. Una musica tirata mirata all’estemporaneità e all’improvvisazione, ben lontana dagli ambienti più patinati delle incisioni su disco, che conferma, soprattutto dal vivo, quanto di buono si è speso e detto di questo interessante artista.
Il giorno seguente è la volta di una figura fra le più geniali del panorama musicale mondiale, quell’Hermeto Pascoal già etichettato all’epoca da Miles Davis come uno dei più impressionanti musicisti in circolazione. Il compositore ed interprete brasiliano arriva alla guida di un sestetto di polistrumentisti in una sala Sinopoli riempita nemmeno per metà. Ed è un vero peccato, sia per l’\importanza di una figura che ha collaborato con musicisti del calibro di Stravinskij, Cage, Hendrix e dello stesso Davis, sia per la qualità delle performance singolari che hanno sempre caratterizzato la carriera di Pascoal. Il maestro brasiliano si posiziona inizialmente alle tastiere non suonandole praticamente mai, ma è un vulcano nel dettare ritmi e stacchi e nel dirigere i vari arrangiamenti tipici del suo modo stravagante di intendere la musica. Qui infatti tutti devono adattarsi all’estemporaneità del momento, abbandonare il proprio strumento per improvvisarsi percussionisti di altri meno convenzionali come teiere, giocattoli, elementi come l’acqua e il ferro, bottiglie e pietre in lunghi brani dal sapore carioca che assumono sempre connotati diversi. Dopo i vari temi, infatti, il solista di turno viene spesso lasciato in perfetta solitudine, con Pascoal che raccoglie a sé gli altri musicisti improvvisando discussioni teatrali in spassose mimiche teatrali. Ma è la musica ha rimanere sempre al centro tra allegria, ironia e cambi repentini di atmosfere passando dalla suadente voce di Aline Morena agli accenti più free dei sassofoni di Vinicius Dorin, supportati dalle percussioni mai invadenti di Marcio Bahia e Fabio Pascoal. Una performance unica,difficile da raccontare ma entusiasmante da ascoltare, in uno show di rara musicalità grazie ad un interplay assoluto, con i musicisti che non smettono di suonare anche una volta raggiunti i camerini, tra lo stupore di un pubblico ristretto ma ben ripagato.