Don Pasta: La Parmigiana e la Rivoluzione

Foto: la copertina del libro










Don Pasta: La Parmigiana e la Rivoluzione.

Stampa Alternativa – 2013


La Parmigiana e la Rivoluzione traccia una linea dove convergono musica, cucina e riflessioni sul nostro vivere moderno. Don Pasta realizza un libro scoppiettante animato da ogni tipo di musica e ogni tipo di cucina in una serie di combinazioni sorprendenti e affascinanti: una maniera per conoscere e entrare in contatto con sapori e suoni provenienti da ogni angolo del pianeta, con l’attenzione alla forza e alla dignità delle radici, una connessione forte tra ancestralità e possibilità di incontro. In televisione, in questo periodo, abbondano programmi di cucina dove troviamo cuochi più o meno accreditati e ricette spesso poco credibili o eccessivamente arzigogolate: ecco, Don Pasta, al secolo Daniele De Michele, ci porta in tutt’altra direzione. Il senso profondo de La Parmigiana e la Rivoluzione è la scoperta o, se si vuole, la riscoperta di alcuni valori identitari, attraverso capitoli brevi, capaci di portare il lettore subito dentro ogni argomento e arricchiti da link ad esperienze vicine alle tematiche del libro.



Jazz Convention: Una cosa che si apprezza sin dal preludio è la sintesi, sapida, con cui tratti gli argomenti…


Don Pasta: La mia venerazione per Erri de Luca ha probabilmente condizionato la scrittura. E poi nel rock’n’roll bastano chitarra, basso e batteria per esprimere un concetto



JC: Così come la velocità e l’immediatezza delle connessioni che apri tra i vari argomenti, anche quelle meno scontate


DP: Questa invece viene dalla mia deformazione da DJ. Il missaggio di pensieri, ricette, musiche risponde agli stessi principi di quando sui dancefloor passo dai Clash a Coltrane senza remore. È tutta una questione di groove.



JC: Parlando della parmigiana alla salentina e della napoletana minestra di Santo Stefano, affermi una delle verità maggiori della cucina italiana: “Il piatto sarà così più pesante, rispettando il codice deontologico della cucina italiana.” Secondo te da dove viene questa necessità tutta italiana di doversi alzare da tavola sempre oltre la soglia di boccheggiamento?


DP: Dalla fame probabilmente. Penso sia una esorcizzazione della povertà, della fame. Quando si parla con le persone più anziane si percepisce ancora quel timore antico. Ma da buoni uomini posizionati geograficamente ogni paura va scacciata con la festa e con la generosità.



JC: L’amore per i tesori dell’Italia, intesi in primo luogo come pomodori, polpette e olio, ma anche poi come prodotti della cultura e del fare.


DP: È quello che ci caratterizza e che spero non si perda. Abbiamo un retroterra culturale di piccole imprese, di artigiani del gusto, di saperi diffusi e praticati da secoli. Mi auguro che la modernità non cancelli tutto.



JC: Si può dire che il tuo libro sia un atto d’amore per l’Italia fatto attraverso le storie e tradizioni delle ricette e l’apertura a quanto arriva da fuori


DP: Da emigrante quale sono, vivendo in Francia ormai da tempo, mi appoggio a ciò che mi manca, a quel legame indissolubile con la mia storia, con il mio venire da un luogo pieno di contraddizioni ma con una cultura del gusto impareggiabile. E poi c’è questo timore del vedere scomparire il sapere popolare, quello di tutti che mi spinge a raccontarlo.



JC: Quanto La Parmigiana e la Rivoluzione è un libro politico e come?


DP: È un libro che si pone il quesito di come sconfiggere il cattivo mangiare. Diventa politico perché per mangiar bene vanno fatte delle scelte, si deve scegliere da che parte stare.



JC: Se il libro unisce musica e cucina, il tuo percorso si nutre da sempre di entrambi. Qual’è stata la chiave per arrivare alla combinazione di questi due elementi tanto importanti nel tuo pantheon?


DP: La curiosità del DJ, che per deontologia professionale deve ascoltare sempre cose nuove da provare a innestarle nella propria storia, nei propri gusti. E questo vale per i libri, per i viaggi, per i ricordi. Non c’è un criterio particolare secondo cui i nessi si creano. Vengono perché ci gioco, perché è una cosa che mi fa sorridere pensare a Coltrane che mangia parmigiana con mia nonna.



JC: I tuoi gusti musicali sono estremamente aperti: nel libro si passa dagli Stones a Tigran Hamasyan, da Neil Young a Gianmaria Testa. Sono d’accordo con te sulla necessità di ascolti eclettici: credo sia un atteggiamento da salvaguardare per apprezzare differenze e storie piuttosto che chiudersi in un purismo che alla lunga diventa sterile.


DP: Questa cosa invece l’ho imparata dai Clash e per mia fortuna è stata una lezione appresa a 14 anni. A Brixton, in piena epoca di povertà e collere e ultraliberismi i proletari bianchi potevano chiudersi a riccio. Invece ascoltavano musica assieme ai giamaicani ed assieme seminavano rivolta. La diversità è la chiave di ogni trasformazione umana.



JC: Come poter definire in modo esatto e definitivo una ricetta tradizionale? È una domanda che ti poni a proposito della focaccia barese, ma che si può allargare a tantissimi altri argomenti e che costituisce, a mio avviso, il senso profondo di parte del libro: come si può ignorare il contributo alla cultura, alla cucina, alla musica, di ogni intervento successivo, laterale, contaminatore…


DP: Domanda difficile. Penso che abbia a che fare con un patrimonio culturale e identitario più che con una definizione precisa. Nessuno penso possa dare la ricetta esatta del blues, tanto meno del jazz che si è evoluto come nessuna musica al mondo. Stessa cosa per le ricette tradizionali. Stanno li a proteggerti, a legarti per sempre alla propria storia. Ma poi sullo stesso pianerottolo troverai quattro versioni diverse per fare la focaccia. Ogni ricetta, ogni musica non è altro che uno stato d’animo che ci lega al luogo e alla gente che ci ha dato nascita.



JC: Infine, per chiudere, per i tuoi spettacoli hai “usato” spesso jazzisti e, in particolare, penso a Marco Bardoscia o Raffaele Casarano, vale a dire giovani e brillanti jazzisti pugliesi, capaci a loro volta di sintesi tra linguaggi diversi. Cosa ha siginificato per te il loro intervento?


DP: Raffaele e Marco sono il frutto felice di questa rottura dei codici che sta finalmente avvenendo nel jazz europeo. Quando ero ragazzetto mi annoiavo a morte a ascoltare i concerti jazz, erano onanistici. Adesso c’è una spontanea riappropriazione del jazz come luogo dello spirito e come bagaglio culturale. Poi ognuno va dove vuole. E questo Marco e Raffaele lo sanno fare in modo meraviglioso.