Intakt Records – CD 202 – 2012
Maya Homburger: violino barocco
Barry Guy: contrabbasso
Cos’abbia a che fare un esponente free tra i più free che possano annoverarsi per il contrabbasso e la instant-performance – quale Barry Guy – con la musica antica non è unicamente argomentato dall’essere cortese e creativo accompagnatore della consorte Maya Homburger, violinista barocca, ma dall’aver condiviso con la stessa un’altra metà di mestiere, avendo rappresentato (e s’immagina per ragioni non solo alimentari) l’instancabile motore del basso continuo di una delle falangi più prestigiose che la musica antica di seconda generazione abbia vantato, la britannica Academy of Ancient Music di Christopher Hogwood, che negli anni ottanta disse molto di suo sulle neo-interpretazione filologica, ma anche la voce bassa della più giovane Camerata Kilkenny, tuttora impegnata nella riproposta di materiale seicentesco.
Non è che lo stile palesato da Guy (almeno per un orecchio di educazione jazz) tradisca poi troppo la doppia vita artistica, ma certamente gli conferisce più che solida cultura per affrontare su doppio binario anche i complessi programmi che la coppia séguita a portare in scena e in sala d’incisione.
Abitualmente solenne nelle sequenze del duo, il momento d’apertura va nel presente caso ancor più a ritroso nel tempo, affrontando qui un inno medievale con modalità aerea e prolungata contemplazione, pur nella sua brevità, e la transizione conduce verso le più tese dualità dello Hommage à Max Bill, dialettica suite in sette sequenze, recuperando alla fine del contrastato passaggio le sontuose e brucianti fioriture delle Mystery Sonatas del seicentesco Biber che, dopo la sensibile meditazione di Kurtàg (Hommage à J.S.B.) vengono introdotte con grande, immaginifica confidenzialità da un magistrale Guy e svelate dal labirintico virtuosismo di Homburger e, dopo una nuova, tonica sequenza di conturbante forma libera decisamente “in purezza”, chiosano nelle Canzona e Sarabanda, serene onde nella tenue luce del commiato.
Nient’affatto rappresentando una rilettura jazz (o “peggio” free) di alcunché, Tales of enchantment persegue coerente quella linea creativa già esplicitata nell’appassionante serialità del duo, che in questo caso sembra aver ulteriormente modellato il sound, operando non tanto per sottrazione quanto orientandosi verso una morfologia più alleggerita dai contrasti (più “polished” – ma non per questo rieducata nell’ardire), ove convivono – e interagiscono – drammaturgia, stile e ricerca.