Matteo Muntoni – Nobody in K Space

Matteo Muntoni - Nobody in K Space

TiconZero – TCZ 016–1 – 2012




Matteo Muntoni: composizione, contrabbasso, basso elettrico, chitarre, organo Farfisa, percussioni

Valter Mascia: sax soprano

Riccardo Pittau: tromba

Paolo Sanna: percussioni, didjeridoo

Stefano Vacca: batteria, percussioni

Giulio Muscas: voce
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Fascinazioni non sopprimibili, talvolta propensioni all’azzardo, istigano sovente a reinventare o, quanto meno, rievocare l’atmosfera dei grandi di un tempo, in questo caso di Kubrick. Che quest’ultimo avrebbe prodotto un effetto da irradiamento solare nel variopinto immaginario collettivo è fatto ormai constatato, non solo dalle generazioni passate. L’asse di scorrimento di Nobody in K Space è lungi da un atteggiamento pedissequo, per fortuna, diremmo, poiché se lo fosse tradirebbe il bellicoso e critico spirito proprio di un'”odissea”. Da tanta imponenza culturale è difficile scindersi, tant’è che il progetto, benché si orienti verso la creazione di un’espressione vicina a Kubrick, risulta dissimile nell’impatto. Tuttavia, si parva licet, Nobody in K Space entra immediatamente in un mondo di sonorità sintetiche congeniali alla strumentazione acustica, in questo caso a quella più tipica del jazz, con l’inclusione ad effetto delle gutturali note dell’etnico didjeridoo. Nel progetto del gruppo di Muntoni (contrabbassista e compositore), momenti di estasi minimalista si alternano ad un mood plumbeo ed a tratti epico (soprattutto nella sezione denominata Earth, la prima della tripartizione Earth-Moon-Jupiter); non mancano alterazioni quasi sciamaniche negli slanci di mera sperimentazione né un andirivieni fuligginoso ed oscuro, proprio dell’inquieto vorticare della sfera elettronica. L'”approdo sulla Luna” sancisce un primo, iniziale distacco dall’aria terrestre, grazie soprattutto al cavernoso didjeridoo (in Monolith); l’allontanamento definitivo dalla terra è ottenuto dall’andamento a mo’ di fanfara di Beyond Infinity e dal respiro stroncato prima dalla voce e poi dalle percussioni in Hal 9000, per sfumare pian piano nel ritmo redivivo, quasi mutato di Starchild, assestamento e smarrimento dell’uomo che varca la soglia dell’umano.