Ritorna Natura morta con custodia di sax. Intervista a Geoff Dyer.

Foto: la copertina del libro










Ritorna Natura morta con custodia di sax. Intervista a Geoff Dyer.


Penso che Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer oggi finalmente in libreria, grazie a Einaudi (con nuovi apparati storico-critici, curati dal jazzologo Luciano Viotto, a vent’anni, 1993, dalla prima edizione italiana per Instar Libri), non sia il capolavoro letterario di Geoff Dyer, ma forse il testo narrativo migliore tra la jazz fiction, anche perché si possono conteggiare soltanto tre grandi romanzi che siano riusciti ad affrontare direttamente la vita di celebri musicisti, esprimendo una parte più o meno ampia delle condizioni esistenziali spesso ardue o contraddittorie di chi da fine Ottocento ai giorni nostri ha impresso una svolta fondamentale alle cosiddette sonorità: abbiamo soprattutto tre titoli, Il persecutore (1958) dell’argentino Julio Cortazar, Buddy Bolden Blues (1976) del canadese Michael Ondaatje e appunto Natura morta con custodia di sax (1991) del britannico Jeff Dyer oggi cinquantacinquenne.


Natura morta con custodia di sax non è tanto un romanzo, quanto piuttosto una raccolta di brevi racconti omogenei, ciascuno dei quali è incentrato su episodi quotidiani della vita di grandi jazzisti americani come, nell’ordine, Lester Young, Thelonius Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charles Mingus, Chet Baker, Art Pepper, più un brano spezzettato su Duke Ellington e Harry Carney, i cui frammenti vengono alternati a tutti gli altri episodi.


Lo scrittore si approccia alla materia narrata, con un gusto decisamente postmoderno, nel senso del virtuosismo un po’ erudito un po’ letterario di esprimersi mediante i personaggi, descritti semplicemente fingendo di calarsi dentro di loro, insomma attraverso il ricorso alla ri-creazione di momenti in apparenza banali, insignificanti, minimalisti, ma che in realtà denotano il fondo di amarezza, solitudine, pessimismo del jazzista assurto psicologicamente al ruolo di antieroe esemplare della nostra epoca.


Ho avuto modo di conoscere personalmente Geoff Dyer, circa vent’anni fa, in occasione della presentazione del libro appena uscito in Italia. E questa è la trascrizione dell’intervista che mi aveva concesso a Milano, presso la Libreria Feltrinelli di via Manzoni, prima dell’incontro con i lettori.



Jazz Convention: Cosa significa quando affermi, nel tuo saggio (come postfazione al libro), che la letteratura sul jazz è stata poco qualificante?


Geoff Dyer: Secondo me esiste una certa incompatibilità fra la musica e la scrittura: il jazz si esprime al suo meglio quando è cool, nel senso di fresco, spontaneo, improvvisato; la scrittura è invece più ponderata e sedimentata. La scrittura sul jazz è bella quando riesce a catturare lo spirito della musica, quando le parole sono imbevute e intrise della spinta che è alla radice del sound medesimo.



JC: I pochi intellettuali che hanno amato il jazz – per esempio Vian, Sartre e gli esistenzialisti francesi oppure Kerouac e la beat generation – non hanno fatto della teoria o della critica, semmai gli hanno dedicato qualche poesia o poche veloci riflessioni. Perche ?


GD: Forse il problema va affrontato da un’altra prospettiva: ad esempio Adorno ha scritto dei saggi molto belli sulla musica, ma non ha mai affrontato seriamente il jazz, dimostrandosi sempre incapace di vederne lo specifico. Si tratta di una grossa lacuna nella comprensione estetica della musica contemporanea e questo a sua volta è rivelatore di un certo atteggiamento filosofico.



JC: E in Inghilterra quale è stato il ruolo degli intellettuali nei confronti del jazz? L’unico nome di rilievo rimane ancora Eric Hobsbawm, storico ed economista, che scriveva di jazz sotto pseudonimo.


GD: Era ancora molto forte, all’epoca della prima pubblicazione di Hobsbawm, l’idea che un saggio sul jazz sia un’attività di carattere minore rispetto a quelle accademiche tradizionali. Però fin dagli anni cinquanta, negli ambienti universitari, molti furono gli scrittori britannici influenzati dal jazz. Il più grande è senza dubbio il poeta Philip Larkin, che ad Oxford ascoltava moltissimi dischi di jazz, perche era sinonimo di ribellione e di anticonformismo. Successivamente Larkin ha espresso una teoria particolare, sostenendo che nella vita intellettuale del nostro secolo ci sono stati tre punti-chiave, Ezra Pound per la poesia, Picasso per la pittura e Parker per la musica. Dopo Parker non esiste più nulla. Ma forse qui c’è una discrepanza fra il punto massimo raggiunto dal jazz e quello in cui si ferma Larkin.



JC: In che senso, scusa?


GD: Le posizioni di Larkin verso il jazz contemporaneo denotano infatti la sua ostilità contro tutto il modernismo, al punto che nell’unico libro completamente dedicato al jazz (finora inedito in Italia) Larkin indica i negri come bravi intrattenitori, ma non come veri artisti, per non parlare dei giudizi sui singoli jazzisti e sui loro dischi, che sono addirittura tremendi o scorretti. Per esempio Larkin descrive come stupendo, delizioso e gaudente il brano Alabama, senza dire che Coltrane lo interpretò dopo il vandalismo del Ku-klux-klan in una Chiesa di colore: ciò esprime un atteggiamento filisteo di ignoranza che pervade certa intellighenzia britannica.



JC: Come viene oggi vissuto il jazz in Gran Bretagna?


GD: Il jazz torna a essere di moda in Inghilterra, e in particolare a Londra, verso la fine degli anni Ottanta. Si tratta di un revival assolutamente diverso dai precedenti per tre diverse ragioni. Innanzitutto è un revival che nasce nei night club, cosa che prima non era mai successa. In secondo luogo c’è una consapevolezza di moda e di stile, in cui accanto alla musica si rivalutano analoghe esperienze in campo figurativo (soprattutto le foto-jazz di Hermann Leonard). Il terzo motivo è che proprio alla fine degli anni ottanta diventa adulta la prima generazione dei neri inglesi (nata sul suolo britannico dall’immigrazione), che produce una propria musica variamente influenzata da stilemi locali, europei, africani, caraibici e naturalmente nordamericani.



JC: Ma si può parlare di uno stile o di una cultura jazzistica inglese?


GD: Innanzitutto il Blue Note sound di Art Blakey, Lee Morgan, Lou Donaldson ha più o meno direttamente influenzato tutti i giovani jazzmen britannici, bianchi e neri (Courtney Pine, Andy Sheppard, Tommy Smith e Steve Williamson, eccetera) molto seguiti in questo periodo nel Regno Unito. Questa moda del jazz ha condotto il giovane pubblico a riscoprire entusiasticamente musicisti come Pharoah Sanders, il cui primo concerto londinese, da me recensito sull’Observer, ha segnato l’inizio di questo ritorno d’interesse.



JC: L’Inghilterra però, jazzisticamente parlando, era famosa, già dalla fine degli anni Sessanta, per un’avanguardia molto radicale…


GD: Secondo me c’è tuttora una contraddizione tra vecchi e nuovi musicisti jazz inglesi, poiché i primi (quelli vicini al free o allo sperimentalismo) hanno sempre mantenuto uno stile di vita informale che si riflette nelle scelte musicali, mentre i secondi, in una sorta di linguaggio post-bop, si dimostrano molto più formalisti, dal look Armani al sound levigato e citazionista. Dunque i vecchi paradossalmente appaiono più genuini e nuovi. Non ci resta che attendere per vedere a cosa si arriverà. In questo momento a Londra fa faville una musica nera funky, però esiste pur sempre un Julian Joseph che suona del buon jazz di scuola classica.



JC: Quale tipo di jazz credi che possa prevalere in futuro?


GD: Questo è un momento importante per la musica perche si stanno sviluppando tantissime esperienze, già prontamente etichettate come ethnic music o world music o new ethnic. Non sono sempre d’accordo sul modo in cui le varie forme musicali si fondono e si mescolano. Affinché il jazz sia un prodotto di buona qualità, occorra che ne esista almeno una traccia all’interno di un composto, ossia un segno puro di jazz anche nel mezzo di altre culture sonore.



JC: Pensi che il concetto di postmoderno si possa dunque applicare anche al jazz?


GD: Wynton Marsalis, nella storia del jazz contemporaneo, rappresenta un atteggiamento definibile postmoderno, un termine che a molti suona antipatico. Ma con postmoderno intendo dire che solo in un preciso momento della storia (della storia della musica in questo caso) si può tornare alle radici e poi improvvisare per spingersi oltre, per andare oltre il moderno. E tutto ciò non sarebbe stato possibile prima di Marsalis. Per quanto riguarda la frequentazione della musica classica da parte dei jazzisti (tipico appunto del postmoderno), il fenomeno più interessante non è Marsalis, ma Keith Jarrett, perché il suo lavoro su Bach, ha avuto significative ripercussioni sul pianismo jazzistico nei vari solo concerts, in uno stile unico al mondo.



JC: Per .finire quali sono gli autori che più ti hanno influenzato nel tuo lavoro sul jazz ?


GD: Più che di scrittori-jazz sono stato influenzato sia dal Roland Barthes de La camera chiara (un saggio strutturalista sulla fotografia) per lo stile letterario e l’approccio analitico sia dalla critica d’arte di John Berger, di cui amerei saper scrivere come lui sa fare per la pittura. All’epoca dell’uscita del mio libro non conoscevo Jazz di Toni Morrison e nemmeno Al Young, il maggior romanziere-jazz. Avevo però letto attentamente tutti gli scrittori afroamericani dell’epoca dei jazzisti di cui ho parlato: Richard Wright, James Baldwin e l’autobiografia di Malcolm x, che costituiscono le basi culturali delle mie scelte.

Ho rincontrato Geoff Dyer, circa vent’anni dopo, nell’aprile 2013 in occasione dal Torino Jazz Festival al Circolo dei Lettori in piazza Castello, in questo caso prima del dibattito e anche durante, quando in pubblico gli ho rivolto un paio di domande, che allego alle altre.



JC: Cosa significa Natura morta con custodia di sax vent’anni dopo?


GD: Questo libro mi è particolarmente caro, è il primo dei miei tradotti e all’epoca l’Instar aveva fatto una delle più belle edizioni dei miei libri. L’editore aveva investito così tanto denaro che il primo di giro di presentazioni mi è rimasto impresso da allora fino a oggi, perché avevo addirittura un trio jazz ad accompagnarmi nelle presentazioni, mi sembra con Furio Di Castri ed Emanuele Cisi. Non solo questo libro è tradotto in più di venti lingue (la prima volta all’estero fu proprio in Italia); e vi ringrazio dal profondo del cuore, perché il successo inizia qui a Torino. Ogni volta che c’era una nuova edizione, l’opera cartacea diventava sempre più bella, ricercata, spettacolare, addirittura fu aggiunto un cofanetto ogni volta più ricco e complesso; più libri vendevano, più costava produrre questi libri, non era forse la gestione migliore per il mercato editoriale.



JC: Ti sei mai chiesto perché hai lasciato fuori dal libro certi jazzisti dalle vite spericolate come in primis Charlie Parker?


GD: Perché in fondo con lui inizia tutto, inizia il jazz come forma d’arte moderna, ma devo dire che non ne ho scritto perché moltissimo c’èra già su di lui come ad esempio il libro di Ross Russell; il mio interesse verso il jazz parte dopo, attorno al 1958, ma su Parker non avevo idea di cosa potessi dire di diverso o di nuovo.



JC: E altri jazzmen che magari oggi inseriresti in Natura morta con custodia di sax?


GD: Se devo discutere una pecca del libro a distanza di vent’anni, c’è un’altra assenza, quella di John Coltrane di cui provavo un’enorme soggezione, anche se adesso sento la sua assenza come quella di Albert Ayler che rappresentava il tipo di jazzista che avrei potuto descrivere: free jazz, musica d’avanguardia che ricrea le marchin’ band che c’erano a New Orleans a inizio Novecento. Dunque per me, più che Parker, le assenze rilevanti sono quelle di Coltrane e Ayler.



JC: Oggi sembra tutto più facile, ma ventidue anni come ti eri documentato per scrivere il libro?


GD: All’epoca in cui stavo scrivendo Natura morta con custodia di sax, non c’erano molti testi sul jazz, all’epoca non c’erano né internet né YouTube. Le informazioni non erano tanto accessibili. Adesso si può stare qui, a questa conferenza, e ascoltare contemporaneamente l’intervista a Don Cherry su Albert Ayler, mentre lui a Copenaghen suonava con Sonny Rollins e Dexter Gordon, persone comuni ma per me assolutamente mitiche che però non erano rock star, perché suonavano in piccoli club danesi spesso con jazzmen locali, tra intimità e celebrità che si fondevano. Nel 1995 a New York andavo al Village Vanguard di Max Gordon dove avevano suonato Charles Mingus o John Coltrane: una volta recandomi al gabinetto mi trovavo accanto a Charlie Haden; cosa si fa in quel momento? si dà la mano a una persona che aveva suonato con Ornette Coleman e Don Cherry? non è la stessa cosa che trovarsi al gabinetto con Mick Jagger (ammesso che usi lo stesso bagno del pubblico), era qualcosa tra il mitico e il quotidiano che il jazz possedeva.



JC: Rileggendo il testo, trovo eccezionale la parte su Thelonius Monk…


GD: Il racconto che riguarda Monk è incentrato sulle figure femminili protettive: una la moglie Nellie e l’altra la baronessa Nika, che cercò di aiutarlo: infatti Monk passò gli ultimi dieci anni a casa di lei in mezzo a cento gatti. Il mio punto di vista è cercare di rappresentare quello che sono queste storie; io non so suonare uno strumento musicale e non ne capisco nulla del punto di vista tecnico, non posso dire passo dal do al re, è come essere stato vago; ma nel momento in cui uno scrive il libro che vorrebbe leggere, non ho potuto utilizzare il linguaggio musicale più tecnico, e mi sono avvalso delle capacità del linguaggio di narrare, ho usato per Monk immagini visive ad esempio descrivendo come Monk camminava nell’ottica di camminare, un viaggio, narrare.



JC: Sembra persino che tu abbia ereditato un po’ dell’imamginazione monkiana.


GD: Vorrei farti un altro esempio: Monk ha scritto un pezzo Crepuscule With Nellie, che è tutto composto e che lascia pochissimo spazio all’improvvisazione; perché era stato composto dall’inizio alla fine? ho immaginato che l’avesse scritto per sua moglie in ospedale, dove effettivamente era stata ricoverata; ho immaginato che abbia scritto questo pezzo che non poteva essere improvvisato, perché Monk non voleva che cambiasse nulla di sua moglie, che restasse com’era. E ho pensato a una scena che descrive quest’uomo che cammina nella luce crepuscolare a New York.



JC: Sempre parlando di Monk, mi sembra che tu abbia messo in sottordine il ruolo della baronessa…


GD: Ho voluto sminuire la figura di Nika forse per una questione di ostilità di classe: sicuramente gli eredi di Nika avranno la loro da dire su questo.



JC: Ci sono personaggi del tuo libro che a distanza di anni non ti convincono del tutto?


GD: Mi sono reso conto che – avendolo visto anche su YouTube – ho commesso un errore nel descrivere Lester Young, perché ho sottolineato in maniera eccessiva che fosse un piccolo fiorellino delicato: in realtà era molto più duro, usava parolacce come fuck o motherfucker, altrimenti non sarebbe sopravvissuto.



JC: E c’è come una vena comica attorno al personaggio…


GD: Monk era anche buffo, come anche Mingus che faceva ridere; ad esempio c’era la discussione con Roland Kirk: e nella scena Mingus e Kirk discutono tra loro animatamente e questo è un contro-bilanciamento di altri aspetti molto più drammatici che vengono decritti come la droga: qualunque cosa succedesse, questi jazzmen si divertivano tra di loro: quando uno fa un assolo molto bello, gli altri si mettono a ridere e questa delle risate è una delle caratteristiche comuni a tutti loro.



JC: Ma pensando a molte delle figure che hai descritto si può sostenere che la malattia mentale nei jazzmen è la sorella sfortunata dell’arte e della musica?


GD: Difficile dirsi; bisogna pensare alla situazione politica del tempo, al razzismo che ha avuto il suo peso; e gli stress causati da queste circostanze hanno gravato sulle vite dei jazzmen. La loro schizofrenia: da un lato ritenuti cittadini di serie b, dall’altro invece protagonisti di quest’arte moderna che si stava sviluppando in maniera molto veloce dagli anni Quaranta in poi. C’è un aneddoto: un giovane va ad ascoltare a Detroit nel 1962 il quartetto di John Coltrane; meravigliato chiede al batterista Elvin Jones cos’è questa nuova musica, chiede di spiegargliela ed Elvin Jones e risponde: “Che cazzo ne so!”.



JC: Sei cittadino inglese e oltretutto molto british nello stile: perché hai usato una koiné statunitense per parlare di jazz afroamericani in Natura morta con custodia di sax?


GD: Il tipo di linguaggio nel libro comprende in effetti molto slang americano nero: può sembrare strano, ma molte persone della mia generazione leggevano più libri americani che inglesi, quindi ho trovato più facile che altri esprimermi in questo modo.



JC: Il tuo libro era uscito vent’anni fa in coincidenza con un nuovo impulso del jazz britannico: Courtney Pine, Andy Sheppard, Tommy Smith, Julian Joseph e Steve Williamson; ora com’è cambiata la situazione? Cosa c’è che ti interessa nel jazz del 2013?


GD: C’era in effetti una sorta di rinascita del jazz inglese quando uscì il libro, poi si è stemperata un po’ e l’energia si era focalizzata maggiormente sull’elettronica, e forse mi sono perso questa nuova ondata di musica; l’energia era altrove, insomma; adesso a Londra e in altre parti del mondo c’è molto interesse verso il gruppo australiano Necs che usa il pianoforte con elettronica e drum’n’bass.



JC: Pensi che il baricentro jazzistico oggi sia più americano o europeo o altro?


GD: Il centro di gravità s’è spostato rispetto agli Stati Uniti dove il jazz è diventato Arte con la A maiuscola, patrimonio della cultura americana; oggi il centro del jazz verte più sulla Scandinavia e sull’Australia; oggi è un periodo molto fruttuoso per una musica simile al jazz che non so se si possa chiamare ancora jazz.



JC: E i tuoi gusti, in fatto di jazz, sono cambiati?


GD: A me piaceva molto il Miles Davis acustico ma quando ha usato le sonorità elettriche non lo sopportavo proprio, ma ascoltate oggi le trovo assai più contemporanee di tutet le svolte del jazz successivo.



JC: Vent’anni sono sufficienti per pensare a un nuovo libro sul jazz?


GD: Domanda orrenda, sono diventato sempre più cosciente del fatto che vorrei scrivere altre cose, mi interessa molto più Ornette Coleman, vorrei scrivere la ballata di Jimmy Garrison unico rimasto nel John Coltrane Quartet (dove che McCoy Tyner ed Elvin Jones se ne erano andati), ma non ci sono riuscito, non sono capace di farlo, ci sono anche aspetti tristi del fatto che siano passati vent’anni. L’unica cosa è che tempo fa ho scritto un pezzo su Don Cherry di cui sono molto contento.



JC: Ti proporresti come regista di un film sul jazz?


GD: Mi piacerebbe moltissimo fare un film senza parole, utilizzando documentari degli anni Cinquanta e Sessanta con colonna sonora musicale appropriata; mi piacerebbe vedere ciò che stava avvenendo nel mondo della musica in rapporto alla società, ma non saprei come farlo.



JC: Hai visto qualche film interessante sul jazz?
Mi viene in mente come testimonianza sulla vita degli afroamericani il recente documentario The Black Power Mixtape 1967-1975 di Goren Olsson, dove alcuni giornalisti svedesi – uomini molto biondi insomma – intervistano i militanti del potere nero con l’ex militante Angela Davis che alla domanda sulla violenza del “black power” risponde con una tirata di cinque lunghi minuti in cui racconta il tipo di violenza a cui fu sottoposta lei e la sua famiglia durante l’adolescenza.



JC: Cambiando discorso, esiste secondo te una letteratura jazz?


GD: Per ciò che riguarda la jazz literature nel senso di quelli che scrivono con un ritmo jazz, mi viene in mente anche Jack Kerouac.