I Dialoghi di Angelo Olivieri

Foto: Alessandro Sgarito










I Dialoghi di Angelo Olivieri.


Chi è Angelo Olivieri? Angelo Olivieri è un trombettista tecnicamente dotato, creativo, curioso, sperimentatore impenitente, pronto a lanciarsi in qualsiasi progetto che prevede cose nuove, inusuali, che stimolano la sua smania di ricerca e crescita artistica. Si direbbe “il rischio è il mio mestiere” e lui, intorno a questa prerogativa costruisce giorno dopo giorno, concerto dopo concerto, la sua idea di jazz. Con Silvia Bolognesi ha inciso Dialogo, un disco bello, coraggioso, di forte impatto, emozionante per la sua intrinseca carica melodica, la libertà espressiva, l’improvvisazione, e la simbiotica e telepatica affinità musicale tra i due.



Jazz Convention: Tu sei uno dei principali trombettisti italiani “votato” all’avanguardia e alla sperimentazione. Come hai cominciato e a quali musicisti ti sei ispirato?.


Angelo Olivieri: Più che di avanguardia o sperimentazione, parlerei di contemporaneità. Ogni volta che suono o che compongo nella mia mente e nei miei sentimenti è presente uno dei pensieri che meglio rappresentano questa musica che continuiamo a chiamare jazz. È una frase di Louis Armstrong che a una domanda su cosa fosse la musica suonata da lui disse “what we play is life”. Quello che pretendo dalla mia musica è che continui a parlare della vita, che è la vita del 2013 non del 1930. Il jazz come stile non so se esista. Le discussioni su quando è iniziato, quando è finito, se è finito… non mi hanno mai appassionato. Per me il jazz è un’attitudine alla vita, uno stato d’animo, mi verrebbe da dire, un concetto, ma sarebbe troppo mentale. Per arrivare alla seconda parte della tua domanda ti dico che ho cominciato a improvvisare il giorno stesso che sono riuscito a far uscire dei suoni dalla tromba di mio padre, trentacinque anni fa. Non sapevo nulla del jazz, ma improvvisare è naturale, è la cosa che facciamo di più nella vita, ma se qualcuno ce lo ricorda, questo fatto ci spaventa. Mi sono innamorato di un sacco di musicisti. Tutti hanno qualcosa di importante da dire e non è possibile rimanere indifferenti a nessun musicista che sia tale. Amo profondamente la spontaneità e il rigore di Armstrong, la consapevolezza di Gillespie, la sintesi di Miles, la poesia di Chet, i “muscoli” di Hubbard, la creatività di Lester Bowie e la curiosità di Don Cherry, la contemporaneità di certi progetti di Dave Douglas e il suono di Terence Blanchard. E già così – aiuto! – mi sono dimenticato Lee Morgan e Booker Little – imperdonabile – e Clifford Brown, Fats Navarro… Ad ogni modo, pare che tutto questo “polverone” sia stato sollevato da uno che si chiamava Oliver (intendo, Oliver King) e suonava la tromba (o la cornetta)… e questo mi piace!.



JC: Quali sono le tue collaborazioni più importanti, quelle che ti hanno lasciato un segno nel corso della tua carriera?


AO: Ci sono delle collaborazioni che durano anni e ce ne sono altre più brevi. In ordine cronologico, la mia prima vera collaborazione è stata con il pianista Alessandro De Angelis (CD Nadir – Terre Sommerse) al quale mi lega anche una forte amicizia, così come a Pasquale Innarella e Armando Battiston con i quali ho condiviso l’esperienza fantastica del quintetto Echoes con William Parker e Hamid Drake. Da questa collaborazione è nato un altro importante lavoro, grazie anche all’aiuto del giornalista Pierpaolo Faggiano che organizzò il concerto ripreso nel CD live al festival jazz di Ceglie. Mi piace anche ricordare l’incontro con John Sinclair, persona di una profondità e con una storia alle spalle densissima. Poi Andrew Cyrille che con una frase mi ha fatto capire più cose di quante non ne avessi capite in anni di musica (te la dico la prossima volta), o Ornette per il quale ho suonato come ospite di un ensemble organizzato dal conservatorio di Frosinone, che senza che gli chiedessi nulla è venuto da me e mi ha sorriso dicendomi «the melody is not the tonic» e io che non avevo capito, l’ho cercato e gli ho chiesto di nuovo. «You told me “the melodic is not the tonic?”» e lui: «is your soul». Ci sono altre collaborazioni importanti come quella con John Tchicai – altro maestro – con Vincent Courtois e con Silvia Bolognesi (altra amica oltre che collaboratrice).



JC: Tu ti muovi anche in ambiti che sono ai confini del jazz. Che cosa è per te questa musica?


AO: Si usa spesso, ed è molto utile per capirsi, l’immagine di confine per il jazz così come per altre musiche. Se pensi che il live di Caos Musique alla casa del jazz rientrava in un ciclo di concerti dal titolo Borders. Nonostante questo non riesco a individuare i confini del jazz, proprio perché per me questa musica rappresenta un’attitudine che implica aspetti che vanno al di là della musica, ammesso che si possa andare al di là della musica. Pensa che Massimo Urbani poteva dire che fosse jazz anche un panino con la cotoletta. Forse il jazz vive soltanto nei confini e ciò che è dentro questi confini è stato jazz.



JC: Ricordi la tua prima incisione?


AO: La mia prima incisione da leader la ricordo perfettamente. Avevo costituito un ensemble che più eterogeneo non si poteva. Musicisti di musica contemporanea, di free jazz, di jazz mainstream, di musica etnica. Il risultato è in un disco che si chiama Oidé del quale sono molto fiero per una serie di motivi. Fu anche votato tra i migliori CD di jazz italiano nella classifica di Musica e Dischi, mi pare nel 2005. Le storie che ci sono dietro sono troppe. Alcune belle, altre meno. Eh sì, la musica non è sempre il Paradiso. Certe volte vorresti anche scappare, ma il risultato musicale fu eccellente. Pur con qualche peccato di inesperienza, Oidé è ancora uno dei lavori che amo di più della mia produzione, che tra progetti da leader, co-leader e collaborazioni sta diventando anche numericamente importante.



JC: Da allora a che punto siamo con i tuoi dischi da leader? Il progetto Caos Musique?


AO: Come ti dicevo, l’esperienza umana di Oidé mi ha un po’ fermato e per un po’ ho deciso di aprire a collaborazioni più che a riprendermi sulle spalle un progetto da leader. Così sono nati Nadir, Echoes e Harafè per l’etichetta Terre Sommerse, En Avant la Zizique con il quartetto Vian per Stampalternativa, la collaborazione con NED fino alla prima registrazione dell’Orchestra Noè. Ad un certo punto ho sentito la necessità di dire di nuovo la mia con un progetto radicalmente diverso da Oidé ed è nato Caos Musique. Ho sentito suonare Vincent Courtois in un progetto di Sclavis e ho subito capito che sarebbe potuto nascere qualcosa di buono. Da un po’ di tempo collaboravo con Antonio Pulli, grande conoscitore di musica elettronica e musicista sensibile. Marco Ariano invece era l’anello di congiunzione ideale tra la musica di Oidé e questo nuovo capitolo. Terre Sommerse ha prodotto la registrazione e il CD ha avuto subito un grande successo di critica e di vendite (sempre rispetto ai numeri del jazz). Purtroppo però, per lo scarso coraggio dei direttori artistici italiani Caos Musique ha avuto pochissime occasioni di suonare dal vivo. In una di queste è nato Caos Musique – live alla Casa del Jazz, grazie a Luciano Linzi che ci incluse nella rassegna Borders. Il successo di pubblico fu entusiasmante (benché la casa del jazz non sia lo stadio Olimpico quella sera facemmo sold out) e vendemmo un sacco di CD a testimonianza del fatto che il pubblico ha molta più voglia di musica nuova della media dei direttori artistici. Esistono per fortuna delle eccezioni che sono fondamentali per chi come me rischia ogni volta che sale su un palco. Ha senso salirci sennò? Anche il CD live ha avuto molto successo tanto che siamo stati invitati ad Ottobre ad Oslo a rappresentare Italia e Francia alle European Jazz Nights. Lì ha suonato con noi il grande trombonista Yves Robert! Sto pensando ad una versione “componibile” di Caos Musique. Recentissimamente ho suonato in trio con Antonio Jasevoli – grande chitarrista con cui torno volentieri a collaborare e Marco Ariano. Mi piace molto anche se il suono del violoncello mi manca un po’. Vedremo il da farsi, Vincent è talmente incasinato – la Francia non è l’Italia, lì come quasi ovunque la curiosità vince sulla “sicurezza” della consuetudine e i musicisti che “rischiano”, se valgono, hanno molte possibilità. E Vincent vale. Infine mi piacerebbe spendere due parole per il progetto Guzman, voluto dal giornalista Paolo Carradori per omaggiare Mario Schiano, figura sicuramente discussa, ma imprescindibile per il jazz italiano. Si tratta di un doppio trio che ho pensato come formazione più duttile del doppio quartetto Colemaniano, ma con intatto l’imprinting del free jazz. Ho chiamato il sassofonista Alipio C Neto come co-leader del progetto, Silvia Bolognesi e Roberto Raciti ai contrabbassi e Marco Ariano e Ermanno Baron alle batterie più una serie di ospiti importanti come Giancarlo Schiaffini, Eugenio Colombo, Ivano Nardi, Pasquale Innarella e Maria Pia De Vito. Il CD ha avuto apprezzamenti importanti in Europa e negli USA oltreché in Italia e speriamo nella possibilità di una serie di concerti live.



JC: Come nasce Dialogo con Silvia Bolognesi?


AO: Con Silvia ci siamo incontrati per la prima volta a Roccella Jonica nel 2003 per una Conduction di Butch Morris – altro personaggio che ha influito in maniera determinante nella mia formazione musicale. Dopo quell’incontro ci siamo rivisti varie volte, ma è stato rincontrandoci all’interno del collettivo Franco Ferguson che abbiamo deciso di cominciare a sviluppare un duo basato sul Dialogo. Con Silvia abbiamo una affinità naturale (eppure lei è senese e io maremmano!) e suoniamo con grande disinvoltura e libertà ogni genere di musica, dalla prima volta, alcuni anni fa al 28 DiVino, un club romano che ospita un sacco di progetti interessanti. Silvia ha un rapporto con lo strumento bellissimo. Fisicità, durezza, dolcezza: ci parla. Io cerco di pensare al mio strumento nella maniera più completa possibile, non solo alla voce che sta davanti, ma anche alla possibilità di essere supporto ad uno strumento normalmente di sostanza come il contrabbasso. Immaginare nuovi ruoli per il proprio strumento arricchisce il linguaggio e il Dialogo si fa più interessante.



JC: Tromba e contrabbasso: un disco impegnativo. I brani originali sono stati scritti per Dialogo? E la scelta delle cover?


AO: È vero, il lavoro potrebbe sembrare impegnativo, ma ad ascoltarlo, si arriva tranquillamente alla fine. In realtà, prima di andare in stampa, abbiamo fatto ascoltare il demo a persone con “coscienze” musicali diverse ed ha avuto ottimi riscontri con tutti. Diciamo che è un lavoro che prende sia alla testa che allo stomaco. Il titolo del CD che è poi anche il nome del progetto (Dialogo) rappresenta i propositi miei e di Silvia rispetto alla nostra musica. Alcune delle composizioni sono state scritte proprio per questo duo – per esempio Dialogue, ma anche altre. Ad ogni modo sia le nostre composizioni che gli standard scelti sono stati suonati nell’ottica del Dialogo e – dal mio punto di vista personale – mi sento veramente soddisfatto. Essere riuscito a non prevaricare in nessuna occasione un contrabbasso – seppur dotato di una personalità notevole – e senza aver perso incisività, anzi tutt’altro, è per me un motivo di enorme soddisfazione. Infine una nota sulla scelta dei brani non originali. Evidence è appena accennata – mi girava nella testa e l’abbiamo suonata così di getto – è una sorta di omaggio alla (s)composizione. I’ve grown accustomed to her face è uno dei miei standard favoriti, da sempre, mentre Ida Lupino l’abbiamo suonata sin dalla prima volta. Art Decò è stata una educatissima richiesta di Antonio Feola, direttore artistico di Teano Jazz, dove abbiamo registrato il dicso, che abbiamo subito accontentato con piacere. Tra l’altro Silvia suona un omaggio a Don Cherry da alcuni anni. In definitiva, direi che se il CD Dialogo racconta me e Silvia per quello eravamo circa un anno e mezzo fa, Dialogo racconta quello che siamo adesso e racconterà ciò che saremo domani.



JC: I tuoi nuovi progetti?


AO: Molti. Alcuni già pronti. Ho in mano una registrazione fantastica di un quintetto con Pasquale Innarella, Francesco Lo Cascio, Riccardo Gola e Stefano Corrias, ma non riesco a trovare un attimo per andare in studio e cominciare con il missaggio. C’è un live inciso per la Horo Records di Aldo Sinesio dal titolo Open Door a nome del batterista Ivano Nardi con Marco Colonna (clarinetto basso) e Pasquale Augello (batteria) che aspetta soltanto di essere pubblicato. A breve inciderò un progetto in solo, di cui ti dirò. C’è poi un trio con Gabriele Lazzarotti (bassista, tra gli altri, di Daniele Silvestri e Niccolò Fabi) e Claudio Sbrolli. Il progetto si muove tra il jazz e il rock e si chiama Ask the Duck! Recentemente ho formato anche un altro trio con Riccardo Gola e Ettore Fioravanti sulle musiche di Kurt Weill. Poi ci sono tantissime collaborazioni grazie alle quali riesco (sembrerà un paradosso, ma per me è così) a trovare il mio baricentro. Come ultima cosa c’è un quintetto di cui sono molto fiero, formato con alcuni miei ex (direi post) allievi dei laboratori di improvvisazione, giovani talenti del jazz italiano, di cui si sentirà parlare prestissimo. Il progetto si chiama (per ora) Zy ed è composto da me, Vincenzo Vicaro alle ance, Gian Paolo Giunta al synth, Riccardo Di Fiandra al basso elettrico e Daniele Di Pentima alla batteria: esordiremo a settembre al festival di Jazzit.