Gaspare Pasini & Pepper Legacy

Foto: Paolo Galletta – da internet










Gaspare Pasini & Pepper Legacy


Conoscere Gaspare Pasini è un dovere morale per ogni appassionato di Jazz. Guardare alla sua arte, interpretandola come l’ennesimo epigono di un grande del passato, si rischierebbe di commettere un grave errore di valutazione. Soprattutto quando in modo manicheo si dividono i jazzmen in “originali” e “replicanti”. Pasini, prima di arrivare ad Art Pepper ha seguito un percorso tortuoso, direi assolutamente unico, che si è dipanato tra mille rivoli di contenuti e idee. In parte provenienti da chi, appunto in passato, ha tracciato linee guida, ma in larga parte derivanti da una sintesi “scientifica” di dedizione, studio e profonda applicazione. Da questo è nato Pepper Legacy .«Per il mio progetto – ci spiega Gaspare Pasini – ho trovato subito l’appoggio della vedova di Art Pepper, Laurie. Nel momento in cui ci pensai, l’ho ritenuto indispensabile, visto che Laurie tiene sempre alto ormai da decenni il nome del marito, alimentando il suo blog. Più che altro dal punto di vista sentimentale e morale sentii di dovermi mettere in contatto con lei, pensando nello stesso tempo che anche per lei sarebbe stato importante. Inoltre possiede ancora tutte le partiture originali. Anche per questa ragione era mia intenzione chiederle brani inediti che in questo primo tour non abbiamo eseguito, ma lo faremo molto presto. Vorrei lasciare un segno di questa esperienza, senza però ripetere come una brutta copia ciò che ha fatto Art.»



Jazz Convention: Come è avvenuto l’incontro con Laurie Pepper?


Gaspare Pasini: Molto semplicemente. Ho contattato Laurie via mail dopo averne parlato due anni fa a New York con David Williams, lo storico bassista di Art. Sei mesi dopo mi sono incontrato con lei a Los Angeles, al Crown Plaza Hotel ed era insieme a Carl Burnet, l’unico batterista vivente di Art Pepper. Per cui, se lui mi avesse detto di non essere d’accordo col mio progetto, l’intera operazione sarebbe saltata.



JC: Come avete rotto il ghiaccio?


GP: Inizialmente abbiamo parlato di Alberto Alberti, grande personaggio legato alla produzione internazionale, dell’autobiografia Straigh life e avevo con me la copia che Pepper aveva regalato ad Alberto, con una lunghissima dedica nella prima pagina. Il libro me lo regalò la vedova di Alberto. Questo colpì molto Laurie, e comprese che non ero il tipico italiano, magari appassionato di Pepper che voleva speculare sul nome del marito.



JC: Così cominciò l’avventura?


GP: In un certo senso. Grazie al console italiano a Filadelfia e ad amici predisposi alcune date da Los Angeles a New York. Con Carl Burnett e Bob Magnusson ha preso forma il progetto. Carl aveva cambiato completamente vita smettendo di suonare. Aveva poi ripreso con un giro di musicisti di Los Angeles e lavorava per la sicurezza dei cantieri edili. Però a casa sua c’era sempre la batteria elettronica per esercitarsi, ma non era più venuto in Europa,. Quindi doveva decidersi.



JC: Cosa decise?


GP: Ci ha pensato a lungo… ma poi, in aprile – maggio dell’anno scorso, quando vide che anche Bob Magnussun e Gorge Cables erano disponibili, decise di scendere “in campo”. In realtà inizialmente chiamai David Williams ma aveva impegni con Cedar Walton e Piero Odorici proprio in Italia. Provai anche con Tony Dumas, ma aveva problemi anche lui. Per fortuna convinsi Magnusson e tutti furono felici di ritrovarsi tra di loro dopo tanto tempo.



JC: Quale significato può avere al giorno d’oggi Art Pepper, per le nuove generazioni?


GP: Può avere il significato di suonare con il cuore. Lui sapeva suonare benissimo, a livelli siderali, ma anche male in talune occasioni. Era molto “up and down” dal punto di vista della lucidità, ma sempre riusciva a metterci l’anima, anche nelle situazioni psicologicamente più difficili. Sul suo esempio, cerco sempre di suonare qualcosa di nuovo. L’ onestà intellettuale presenta però qualche rischio, ma ritengo sia importante soprattutto oggi le nuove generazioni hanno la possibilità di essere molto brave tecnicamente, ma dimenticano di dare la precedenza a quello che veramente si vorrebbe dire, con cuore e sentimento.



JC: Nel tuo caso l’incontro con la musica di Pepper ha mutato la tua interiorità?


GP: Ho cominciato ad ascoltarlo a 21 anni e l’aspetto emozionale era quello consono rispetto all’età, quando si è quindi presi dagli aspetti sentimentali e meno razionali rispetto a quando si va avanti con gli anni. Mi pareva quindi naturale quel modo di suonare. Mi ha cambiato la vita perché è stato il mio riferimento principale per quanto riguarda il sax contralto. Avevo iniziato da poco a suonare il sax ed è stata quindi una questione di feeling.



JC: Un parallelismo fra quattro sassofonisti che per molti aspetti, a cominciare dal suono, si somigliano: Art Pepper, Lee Konitz, Phil Woods e Paul Desmond.


GP: Sono d’accordo nel senso che tutti loro hanno un approccio somigliante almeno dal punto di vista formale. Ineccepibile la loro ricerca sul suono perfetto. Nel caso di Pepper troviamo questo tipo di sound fino al ?60. Phil Woods è il Gigante, inarrivabile per tutti. Ha una solidità formale ed espressiva terribili. Desmond traduceva questo suono, filtrandolo tra le maglie del suo linguaggio. Quante emozioni per quelle note “soffiate”. Tutti e tre hanno coltivato una maestria strumentale assolutamente perfetta che è un veicolo stesso di comunicazione e non un metodo formalista. Insomma una forma di sostanza. Grandissimi maestri. Pepper dal 75 fino a quanto è tornato a calcare le scene ha lasciato da parte l’aspetto “ineccepibile” per tirare fuori una comunicatività espressiva particolare. Direi che, a parte la ricerca e la traduzione del suono puro, Pepper, Woods e Desmond seguivano strade diverse. Woods è un bopper elegantissimo, legato alla conoscenza armonica a a360 gradi. Può suonare al top improvvisamente, coinvolgendo l’intera band. Desmond aveva un senso della melodia straordinario che unita a questo suono unico ha saputo creare un ambiente sonoro che nessuno è riuscito a imitare. Konitz è invece un architetto del suono. Anche lui in effetti parte da questo suono puro, per poi sviluppare un linguaggio personalissimo che non è di pancia, ma assolutamente di testa.



JC: Temi di poter essere considerato un replicante?
Non credo. Nel senso che riascoltandomi, se anche avessi voluto fare il replicante, non ci sarei proprio riuscito. Ho un modo di suonare diverso, sono più modale e ho un suono più sporco. Art ha un suono più secco, tagliente, inarrivabile. Lo scimmiottare non è assolutamente stato il mio obiettivo “brutta copia di Art”. Qualcuno dice che lo ricordo, ma forse solo perché è la mia emotività che potrebbe ricordarlo.



JC:
Tra i tuoi sassofonisti preferiti hai spesso nominato Gato Barbieri e Cannonball Adderley. Non credi siano tra loro piuttosto distanti?


GP: Pur riconoscendo in Cannonball un gigante, l’ho ascoltato poco perché preferivo Pepper e Parker. Amo Barbieri nella fase giovanile per la sua la costruzione di frasi e melodie molto larghe e aperte. Il suo suono è stupendo e pieno. Ma la “fase Barbieri” è finita con Ultimo Tango a Parigi, Chapter e Bolivia. Poi non l’ho più ascoltato Tra i tenori più influenti mi piace ricordare Dexter Gordon. Cannoball in realtà non è tra i miei preferiti.



JC: E arriviamo al disco che realizzato col quartetto americano.


GP: L’ho inciso due anni fa, ma non è ancora uscito. Avrei voluto gestire questa cosa come biglietto da visita ma da allora le incisioni sono rimaste nel cassetto. Dopo qualche mese ho alimentato il pensierino di fare un’etichetta con registrazioni live che metto a punto a casa mia. Dopo aver realizzato 2 dischi che adesso sono già pronti, mi sono fermato e ho accarezzato l’idea di creare un’etichetta. Questi 2 dischi uno, in trio di Shawn Monteiro con la quale sono stato ospite nel suo tour insieme a Tim Ray al piano, Dave Zinno al contrabbasso e Steve Langone alla batteria e un altro dove Shawn ha fatto l’ospite. Di questa seduta c’è anche un video di supporto che non ho mai inserito su Youtube proprio perché vorrei inserirlo nel CD. L’ultimo Cd ha però una storia particolare. Insieme ad Ares Tavolazzi ho cominciato a suonare con Ray nell’ 86. L’anno successivo con Bruno Cesselli e massimo Manzi abbiamo registrato in studio tre pezzi miei e anni dopo con Ares abbiamo fatto un lavoro teatrale con una danzatrice. Noi interagivamo con lei sul palco. Ho scritto il 90% di musiche di questa piece. Poi siamo andati in studio a registrarlo e mi sono così trovato con ampi spezzoni di questo periodo, con l’aggiunta di brani originali.



JC: Quando uscirà?


GP: Non lo so ancora. Ho fatto uscire il mio disco dopo molti anni e non vorrei ripetere questa esperienza. Volevo usare questo disco come biglietto da visita per Pepper Legacy.



JC: Continuerai a registrare suonare nella tua abitazione trasformata a studio di registrazione?


GP: Live studio recording, direi. L’ho inaugurata con Ray, a febbraio. Poi il trio di Bergonzi, Danilo Rea, Flavio Boltro, Maria Schneider, Giuliani, Ceccarelli, Ares, il quartetto di Curtis Lundy, Luigi Bonafede, George Cables e molti altri. Avrò Farrington, Roberto Gatto, Mazzarino, Stefano Bagnoli, Rosario Bonaccorso, Andrea Pozza, Nicola Angelucci e via dicendo.