Charles Lloyd & Jason Moran – Hagar’s Song

Charles Lloyd & Jason Moran – Hagar's Song

ECM Records – ECM 2311 – 2013




Charles Lloyd: sax tenore e contralto, flauto basso e contralto

Jason Moran: pianoforte, tamburelli





Momento d’immersione nelle ragioni più che nelle dinamiche formali di un modo elevato di “fare jazz” – la Hagar del titolo essendo un’antenata del grande sassofonista, la quale di suo sperimentò la mercificazione e la disumanizzazione della persona, background “naturalmente” tuttora attuale degli interrogativi e delle tensioni del suono afro-americano.


La partnership, certamente maturata nei tre album in quartetto e relativi sviluppi su palco, riunisce due personalità pienamente esponenti di un jazz intellettualizzato ed esplorante che non ha però abbassato la guardia sul piano dell’impegno e della consapevolezza politica.
La distillazione degli spiriti sottili e il passaggio delle più pregnanti e calde ombre del ‘900 qui incontrano punti d’equilibrio cruciali con la gamma di esposizioni drammatiche dei jazzmen più avveduti: le studiate cautele d’approccio del sax alto si giustappongono allo scosceso, scintillante contrappunto della tastiera, affrontata con completezza di gamma, toccando punti d’equilibrio che mai lasciano sfiorare il sospetto di calligrafia.


Le due voci si declinano e stagliano con nitidezza già alle primissime battute: il tono compunto ma espansivo fino alla controllata veemenza per il sassofono di Lloyd s’integra con miscela mirabilmente ineffabile con gli addensamenti di forma e le dissonanti agglutinazioni di Moran, conformano un plafond stilistico esteso e di strutturata gamma, cosicché l’esposizione di Pretty Girl non si vanifica in preamboli d’approccio appropriandosi di sue peculiari distillazioni narrative, il vibrante e (re)visionario gusto della classicità è un gioiello di sapienza nel ritoccare con sobria forza l’ellingtoniana Mood Indigo e, con tratteggi più sottili e notturni, la gershwiniana Bess, You is my woman now.


Molto privata, ma esemplare nella condivisione di spirito la pentapartita Hagar Suite, passaggio emotivo delle stanze della memoria e della dignità offese: figurazioni intrise di spiazzanti tinte con l’avvento delle note basse del flauto così come può dirsi dell’ ondulante tastiera, ma in poche mosse il discorso sapientemente s’innerva e corrobora verso l’espressione più forgiata e marciante. Mai gratuiti o retorici gli innesti di colore etnico, grande la strategia narrativa, e tutto si palesa coinvolgente nell’inquieta, sincopata, cerimoniale Dream of white bluff, nello sposalizio di grottesco e brillante in Bolivar Suite, “pacificandosi” nel poetico, inconsolabile germe di rivolta di Hagar’s Lullaby.


Con ispirata classe la sequenza procede, imbizzarrita la maestria nel riplasmare la hinesiana Rosetta, soffuso e manierato il mood da requiem civile (nonché asciutta sublimazione dello spirito della pop-song) della dylaniana I shall be released: toccante per controllata emotività, dirompente per smalto, in Hagar’s Song calibrata misura cameristica s’embrica al diverso sentire e ai segni d’improvvisazione critica delle irradiazioni non solo monkiane o colemaniane, segnando in questa sensibile incisione un punto rimarchevole e prezioso, all’insegna di uno stato di grazia creativo e espressivo.