Foto: da internet
Slideshow. Federica Colangelo.
Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Federica Colangelo?
Federica Colangelo: Pianista, compositrice, nata e cresciuta a Roma. Mia madre napoletana laureata in matematica, mio padre, origini pugliesi, ingegnere. La musica mi ha accompagnato dai miei otto anni attraverso insofferenti anni di scuola e gli anni di liceo scientifico. Parallelamente mi diplomai al conservatorio in piano classico; brevissimo tentativo di seguire matematica all’università per fortuna abbandonato dopo due mesi. Da li è stato un’altalena di insegnanti di jazz e no, fino a che, all’età di 21 anni sono venuta ad Amsterdam. Amo tutta l’arte e ritengo sia un caso che io sia diventata musicista, ho imparato ad amare e conoscere la musica suonando. Amo la pittura, la scrittura, l’architettura e tutto ciò che è cultura/espressione/onestà.
JC: Ci parli dell’esprienza di Acquaphonica?
FC: Acquaphonica è la piattaforma che mi sono creata per poter collaborare con musicisti di estrazione jazzistica, con la loro libertà creativa e conoscenza, utilizzando il materiale che in questi anni ho composto. Negli anni di studio il gruppo era principalmente il classico trio, piano basso e batteria; il materiale si è evoluto ma tutto è sempre ruotato intorno ai miei brani. Ho deciso di formare un quintetto dopo aver visto un concerto di Henry Threadgill al Bimhuis di Amsterdam. Non per scelta stilistica, essendo la loro musica completamente diversa, ma fui attratta dal concetto di un ensemble largo con la potenzialità di colori timbrici dei diversi strumenti.
JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
FC: Non saprei dire il primo ricordo con la musica, ma so che mia madre ha sempre ascoltato musica classica in casa. Ricordo la prima volta che vidi un pianoforte e ne fui folgorata; eravamo a casa di amici di famiglia, uno dei loro figli suonava il pianoforte. Diventai completamente ossessionata e dopo poche settimane mia madre comprò poi quello che sarà il mio primo pianoforte.
JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare una musicista?
FC: All’inizio credo fu una scelta piuttosto inconscia e derivata dalla mia attrazione viscerale verso l’arte. Poi Il processo di maturazione in cui la musica e l’arte ti porta, che ti obbliga a guardare in faccia chi sei e ad andare in profondità nella conoscenza di te stesso, mi ha dato dipendenza e non ne ho più potuto fare a meno. La gioia, l’energia che viene da una buona ora di studio,dal comporre, da una bella prova con altri musicisti o da un concerto da un senso di pienezza unico.
JC: E in particolare in quale genere o forma musicale ti identifichi?
FC: Questa risposta è particolarmente spinosa per me e devo dire che la risposta è cambiata molto nel corso degli anni. In generale non mi sono mai identificata principalmente in nessuno stile in particolare, forse perché l’ho sempre trovato scomodo stare da una parte piuttosto che da un’altra. Ho studiato musica classica per anni, mi sono avvicinata al Jazz a 19 anni principalmente perché avevo l’impressione che con il jazz potessi capire la musica dal di “dentro” e non piu solo esternamente come mi ero sempre relazionata con la musica classica. Direi comunque all’inizio mi identificavo molto con il jazz europeo (E.S.T.) e i gruppi non Straight-ahead (Bad Plus), adoro la musica di Stravinsky e dei compositori americani del Novecento (Charles Ives, Bernstein, Gershwin) e con la musica espressionista (Debussy e Faure).
JC: Molta della tua musica è vicina al jazz; ma cos’è per te il jazz?
FC: In effetti io penso che la parola “Jazz” non sia una parola grande abbastanza per includere tutta la musica che ne viene racchiusa e associata. Ogni giorno nasce una nuova sfumatura di Jazz. Se potessi scegliere, non definerei la mia musica “jazz”, si c’è improvvisazione e si ci sono frammenti di jazz, ma ci sono anche frammenti di tante altre cose (musica classica-contemporanea-impressionista, karnatic music, folk, pop), e cosi sinceramente mi scrollerei di dosso anche un grosso peso riguardante la “tradizione jazzistica” intesa come linguaggio swing e bop. Quindi direi che jazz per me è quell’approccio alla musica che implica lo sviluppo e la ricerca di un linguaggio per l’improvvisazione e per la composizione.
JC: Che ruolo hanno scrittura e improvvisazione nelle tue scelte musicali?
FC: Improvvisazione è da me intesa sia come processo compositivo sia come linguaggio da utilizzare durante un’improvvisazione (sviluppo) su accordi predeterminati. Quando improvviso senza ‘frame work’ ascolto ciò che suono e quando mi piace qualcosa diciamo lo trascrivo e ne prendo nota. Da qui parte la bozza per il pezzo, seguita poi da un approccio più intellettuale. Improvvisazione intesa come improvvisazione su tema e accordi è un’altra storia. C’è una parte di elaborazione e studio per integrare il materiale mnemonicamente per poi poterci suonare sopra più liberamente e per capire i punti chiave di tensione e release caratteristici di un determinato pezzo.
JC: Quali sono invece le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?
FC: Per me il jazz è un mondo enorme pieno di sfaccettature a me ancora sconosciute, più cresco musicalmente e più vedo quanto c’è ancora da sapere. Il jazz fa parte del mio percorso da circa 10 anni ma sento che solo ultimamente sto veramente capendo e percependo onestamente ciò che buon jazz e buona improvvisazione sono veramente. La musica è impalpabile e può essere interpretata e vissuta in molti modi,ma quando si raggiunge un controllo e una coscienza più elevata allora si capisce cos’è ‘the real shit’. Controllo e libertà sono le parole che per me definiscono il jazz e i musicisti jazz.
JC: Tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?
FC: Protection dei Massive attack, Portrait in jazz di Bill Evans, Aurora/Seven seas di Avishai Cohen, Tuesday Wonderland degli EST, Day is done di Brad Mehldau e Live at the Pershing di Ahamad Jamal.
JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?
FC: La mia prima insegnante di pianoforte Anna Sneider, il mio primo maestro di jazz Alessandro Gwiss, poi Amina Figarova. Il mio maestro di composizione Jeroen d’Hoe; un grande maestro di vita è il mio insegnante di Karnatic music-Takidimi Ned MdGowan. Infine il pianista inglese Huw Rees con cui attualmente collaboro discuto e scopro il linguaggio jazz nel termine più proprio del termine; lui è riuscito a farmi capire/scoprire come veramente funziona l’articolato mondo del linguaggio jazz improvvisativo.
JC: E i pianisti che ti hanno maggiormente influenzato?
FC: Esbjorn Svensson, John Taylor, Bill Evans, Brad Mehldau.
JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?
FC: Registrare produrre e suonare il mio primo album Private Enemy è stata un’esperienza surreale e bellissima. Diffondere e condividere la musica è fondamentale per un artista/musicista.
JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?
FC: Mihail Ivanov, Dimitar Bodurov, Kristijan Krajncan, Kaspars Kurdeko, Joao Driessen, Matthijs Tuijn, Jon Bittman, Sanem Kalfa.
JC: Come vedi la situazione della musica in Italia, vivendo tu all’estero?
FC: Non so se sono in grado di rispondere a questa domanda in maniera obiettiva ed ho impressioni contrastanti rispetto a questo argomento. Ho sia l’impressione che la musica in Italia sia veramente radicata nella cultura della gente molto più che qui in Olanda, che il gusto sia molto più affine a ciò che io ritengo bello e di qualità e i musicisti che ho incontrato ultimamente in Italia mi sembrano molto in gamba e pronti a lavorare sodo e a cercare una propria voce. Ma ho anche l’impressione che non ci sia molto spazio per i nuovi professionisti, che non ci siano dei palchi intermedi dove poter presentare i progetti nuovi. Essendo la situazione economica non rosea si tende sempre a dare spazio a soluzioni più sicure, ripresentando sempre i nomi noti.
JC: E più in generale della cultura in Italia, rispetto a come è trattata in altri Paesi da te frequentati?
FC: Prima ti rispondo dicendoti quello che ho visto accadere qui, negli ultimi due anni. L’Olanda nel giro di un paio d’anni è passata dal supportare economicamente ogni tipo di arte e cultura a dei tagli radicali che hanno fatto collassare l’intero sistema. I locali erano prima sponsorizzati dal governo che pagava i musicisti, quindi era abbastanza irrilevante che ci fosse pubblico o meno; il che è abbastanza triste. Ora che i rubinetti sono stati chiusi in maniera indiscriminata tutto ciò che non ha motivo di esistere sparisce e solo i più forti rimangono a galla. Se questo succede nella ricchissima e piccolissima Olanda come può essere la situazione in Italia? Siccome quello che succede con i soldi delle tasse in Italia non è molto trasparente la cultura ovviamente ne risente sempre di più essendo un bene ‘superfluo’. Gli organizzatori faticano e farsi sponsorizzare anche per i festival più interessanti e onestamente non credo che la tendenza in generale sia quella di stimolare la gente alla cultura. Ma io spero in un cambiamento anche dopo l’esito a dir poco confuso delle elezioni.
JC: Infine cosa stai progettando a livello musicale per l’immediato futuro?
FC: Nuove collaborazioni qui ad Amsterdam per piccole formazioni in duo e trio, sto scrivendo nuove composizioni e arrangiamenti per un quintetto d’archi di musicisti della Filarmonica di Sofia (Bulgaria) e presto incomincerò a scrivere i nuovi brani per il secondo album di Acquaphonica (abbiamo due new entry, Joao Driessen al sassofono e Kristijan Krajncan alla batteria). Intanto sto organizzando dei concerti per presentare Private Enemy in Italia quest’estate e in Germania il prossimo autunno.