Uri Caine: piano solo e intervista

Foto: Luca Navarri (per concessione di Musicamorfosi)







Uri Caine: piano solo e intervista

Monza, Teatro Manzoni – 18.4.2009

Uri Caine: pianoforte


A chiudere questa edizione della rassegna “Lampi”, della quale ci siamo largamente occupati su Jazz Convention, è stato un magistrale concerto in piano solo di Uri Caine, certamente rappresentante di una delle realtà pianistiche meglio note e (giustamente) osannate del panorama contemporaneo. Al concerto monzese, come di consueto il pianista ha articolato un dialogo teso e raffinato tra l’improvvisazione e il continuo riferimento alle fonti più disparate, sempre in bilico tra le componenti classiche (evidenti, tra gli altri, i richiami a Mozart, ma anche a tanta musica del novecento) e quelle più spiccatamente blues, jazz e propriamente swing. Personaggio squisito – tanto da chiudere il concerto non prima di essere tornato sul palco per quattro bis – Caine rappresenta il vertice a cui è possibile portare l’eclettismo musicale su uno strumento solista: frequenta con grande intelligenza i più disparati aspetti della musica, compresa la contemporaneità “accademica”, il che è – purtroppo – ancora estremamente raro in ambito jazzistico. L’approccio allo strumento e la padronanza timbrica e dinamica della tastiera rendono un suo concerto in piano solo affascinante e continuamente mutevole, capace sia di affascinare con l’uso dei silenzi e dei pianissimi, quanto di scatenarsi in furiosi blues.


Prima del concerto lo abbiamo raggiunto via mail per una intervista lampo.



Jazz Convention. Attualmente hai molti progetti paralleli in cantiere, sia sul fronte dei concerti dal vivo che nelle pubblicazioni discografiche: ce ne dai una panoramica?



Uri Caine. Oltre al piano solo, sono attivi oggi il mio piano trio e il trio “Bedrock”, più improntato verso la musica elettronica. Sto lavorando a un nuovo disco con questo progetto, ma anche ad un album per pianoforte e quartetto d’archi.



JC. Sei a tuo agio sia con la musica classica che col jazz. Pensi che il piano solo sia la situazione migliore per esprimere questo connubio?



UC. Sicuramente il piano solo è una strada possibile per suonare molta musica che mi piace, ma mi diverto altrettanto anche a suonare in organici più ampi. Si può dire che il jazz sia come una conversazione, e il piano solo si configura come una conversazione con se stessi, oppure come un monologo di fronte ad un pubblico. In un concerto di questo tipo quasi tutto è improvvisato, anche se generalmente seguo un programma molto aperto e appena abbozzato.



JC. Hai un background di studi classici: quanto è importante secondo te avere solidi studi accademici alle spalle per fare jazz oggi?



UC. Non credo che avere un background accademico importi più di tanto: può essere molto utile, a volte, ma non per tutti. Molti grandi musicisti sono autodidatti, e hanno imparato studiando e suonando direttamente a contatto con altri musicisti.



JC. Molte delle tue incisioni più importanti sono consistiti in una sorta di “reinterpretazione” di brani classici attraverso organici aperti e disparati, non di rado coinvolgendo anche la musica elettronica. Se penso al disco sulle Variazioni Goldberg, non posso non chiedermi come faccia Bach a stare insieme ad una drum machine…



UC. In realtà, grazie al suo particolare fraseggio e ai suoi ritmi in continuo movimento Bach si sposa con l’elettronica davvero senza difficoltà, al contrario di quanto può accadere con molti altri compositori.



JC. Quali sono i compositori che più frequentemente porti in concerto oggi? Ce n’è qualcuno che ti piacerebbe eseguire ma che per qualche motivo non hai mai approfondito?



UC. Ad oggi suono ancora Bach, ma anche Mozart e Verdi con i miei ensemble, mentre con orchestre classiche spesso eseguo arrangiamenti di Brahms e Beethoven. Ci sono poi molti compositori che non mai suonato, specialmente moderni – il problema con questi ultimi è che non è molto facile portarli in concerto: ci sono questioni di copywright che ti convincono a non suonare quel tipo di musica…



JC. Ti interessi di ciò che dicono i critici della tua musica? Quando suoni, lo fai più in vista del pubblico, dei critici o di te stesso?



UC. Suono più che altro per me stesso, e per i musicisti che suonano con me, anche se naturalmente spero che il pubblico possa godersi quello che stiamo facendo sul palco. Per quanto riguarda i critici, credo nella libertà di parola, ma spesso chi si occupa di musica non capisce molto di ciò di cui scrive. Mi sono capitate più volte recensioni negative, ma così è la vita!



JC. Hai diretto per alcuni anni il festival jazz di Bergamo: come ti sei trovato in Italia dal punto di vista musicale e jazzistico?



UC. Mi sono divertito molto per tutto il periodo in cui sono stato a Bergamo, ma ciononostante preferisco fare il musicista piuttosto che il direttore artistico. Comunque l’Italia è gran posto per fare musica, il pubblico è colto e molto caldo, ho molti amici e ci sono tanti grandi musicisti… Ci sono molti grandi musicisti italiani, più giovani o più vecchi, che suonano oggi in Italia – ho suonato spesso con Paolo Fresu, ma anche con molti altri grandi musicisti di queste parti ho sempre collaborato e tornerò ancora a collaborare in futuro con molto piacere.