Beatles & Jazz

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Beatles & Jazz.


Non passa giorno senza che si parli di Beatles, anche a livelli eccelsi, ovviamente in Inghilterra, loro patria naturale, ma anche in Italia e nel mondo: ad esempio nell’agosto scorso il prestigioso mensile britannico Mojo’ dedito al rock storico dedica ai Fab Four la copertina, un ampio servizio e in allegato un Cd di cover del primo album. Restando sulla penisola, oltre le continue quasi periodiche ristampe di testi beatlesiani classici, in primavera il settimanale Oggi pubblica un numero da collezione, un vero e proprio libro intitolato Mitici Beatles con i contributi di Cesare Cremonini, Enrico Ruggeri, Jovanotti, Linus e Yoko Ono. Persino un libro come Ciao amici ciao di Maurizio Targa (Stampa Alternativa) che tratta di liti, vendette, rancori e riappacificazioni nella musica pop, non solo li sbatte in prima pagina, ma li pone al centro di un interesse quasi da gossip, pur motivandone le ragioni della frattura fra Paul e John.


Ma non è questo il punto, scrivendo su Jazz Convention, poiché ci sono almeno due buone ragioni – una diretta, l’altra simbolica – per considerare i Beatles in rapporto costruttivo, dialetto, storico, con la vita, la cultura, l’evoluzione del jazz medesimo.


La ragione diretta consiste nel fatto che dalla nascita del gruppo, in seno agli originari Quarrymen (1957), fino al primo album ufficiale compreso (Plaese Please Me, 1963), dunque in sei lunghi anni di gavetta, apprendistato, prove e riprove, assetto definitivo, i cinque ragazzi di Liverpool – all’epoca i fondatori e co-leaders John Lennon e Paul McCarney, seguiti dal fedele George Harrison, da Stuart Stutcliffe prematuramente scomparso e da Pete Best sostituito da Ringo Starr alla fine del 1962- suonano di tutto, ivi compreso il jazz magari nelle formule annacquate dello skiffle inventato proprio dai britannici (grazie al chitarrista Lonnie Donegan) o indirettamente pescando dalla grande tradizione sonora afroamericana (blues, soul, r’n’b e ovviamente rock and roll) e dalla musica leggera bianca (che negli Stati Uniti all’epoca vuol dire non solo country, folk, rock, ma anche swing, boogie, exotica, torch song).


La ragione simbolica è che il jazz per i Beatles stessi è un ricordo della propria infanzia, quando alla radio si trasmette quel genere che appunto un dj inglese chiama swing music: in particolare, il padre di Paul McCartney suona il banjo in particolare il padre di Paul McCartney suona tromba, pianoforte e banjo in un’orchestrina jazz dilettantesca, trasmettendo al figlio l’amore per i ritmi sincopati che solo di recente si esterna con l’album Kisses On The Bottom (2012), un trionfo di standard classici, dove pure suonano alcuni valenti jazzmen da John Pizzarelli a Diana Krall. Già Ringo Starr, in tempi non sospetti, dopo la rottura lo scioglimento dei Beatles, nel 1970, esordisce da solista con Sentimental Journey, raccolta di jazz song tra gli anni Trenta e Cinquanta. Ma riferimenti o citazioni di stili jazzistici (o affini) dal vaudeville al charleston, arrivando persino al bebop (nella sezione fiati guidata da Ronnie Scott in Lady Madonna) è costellata, magari in singoli episodi, la discografia beatlesiana in particolare dalla svolta psichedelica sino all’epilogo: ad esempio è dixieland When I’m Sixty Four in Sgt. Pepper oppure è vero blues naturalmente lo Yes Blues sul White Album.


Ma per parlare di Beatles e jazz, bisogna ancora rifarsi agli esordi a quegli anni soprattutto tra il 1960 e il 1961, con l’inizio professionale di una carriera strepitosa che porta quattro ragazzotti di Liverpool alla conquista del mondo a suon di musica. In quei giorni intanto, oltre suonare persino dodici ore al giorno nei localacci di Amburgo, spaziando da Ray Charles a Elvis Presley, Lennon e soci assumono definitivamente il nome di Beatles per il gruppo medesimo, basandosi intelligentemente su un gioco linguistico che scambia una delle due e di beetles (scarafaggio) con la a di beat (battito, battuto). All’epoca è di moda adottare il nome di animali per battezzare i propri gruppi rock, pop, folk, bluegrass; ma loro fanno anche qualcosa in più: creano un neologismo che ha anzitutto a che fare con un vocabolo tecnico musicale, che indica il ritmo tipico delle musiche afroamericane (soprattutto il jazz) da cui derivano tutti gli latri suoni moderni; ma il nome Beatles è anche un omaggio consapevole alla beat generation, il gruppo di letterati alternativi statunitensi (Jack Kerouac, Aleln Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, eccetera) che ama il bebop e il buddismo, i maudit francesi e i reading di jazz-poetry e che da New York a San Francisco fa conoscere ai giovani un nuovo modo di fare poesia, legata via via al flusso di coscienza, alle improvvisazione musicali (la prosodia bop keroukiana), al rifiuto dell’american way of life più triviale e consumista, al ritorno a valori quasi bucolici pur nella consapevolezza di muoversi in mezzo a giungle urbane. A ben vedere sono molti gli elementi in comune tra la filosofia dei beatniks e la piccola rivoluzione sonora compiuta dagli stessi Beatles, a cominciare dalla lunghezza dei capelli o dal modo di vestire, con la differenza che i primi, salvo rare eccezioni (postume) rimarranno movimenti di nicchia, mentre i Fab Four conquisteranno in breve l’intero pianeta.


Nel marzo 1961 i Beatles debuttano non a caso alla Liverpool Jazz Society al 13 di Temple Street nella loro Liverpool: rispetto al Cavern, dove si fanno le ossa, è un locale prestigioso, che diverrà poi l’Iron Door Club, ovvero, tra il 1961 e il 1964 la culla del Mersey Beat, a sua volta il movimento di decine di giovani band locali (il Mersey è il fiume che bagna Liverpool) che imitano il sound americano e afroamericano, talvolta semplicemente per divertirsi o come diversivo alla vita monotona di una città portuale dalle limitate risorse artistiche. Tutti cercano di emergere, di compiere il salto di qualità, attraverso il rituale dei concerti in pub o in night di infimo grado, dove si suona per poche sterline in mezzo a ubriaconi e attaccabrighe. Qualcuno cerca di tirar fuori un suono diverso rispetto alla copia sbiadita degli idoli neri o bianchi d’Oltreoceano. Solo i Beatles, a Liverpool, vi riusciranno grazie a una serie di più o meno fortuite combinazioni, non ultima l’amicizia con Brian Epstein che, da direttore di un negozio di elettrodomestici, diverrà il manager in grado di catapultarli verso la gloria imperitura, fino al misterioso suicidio del 27 agosto 1967, che per molti significa anche la fine dei Beatles come gruppo organico e compatto. Brian Epstein, spesso definito il quinto beatle, attorno al 1961, dopo l’ascolto delle loro primi incisioni discografiche: infatti è anche l’anno in cui entrano per la prima volta in una sala di registrazione, in giugno, ad Amburgo, con il celebre produttore Bert Kaempfert, ex jazzista, per alcuni 45 giri del cantante Tony Sheridan, che si fa accompagnare da Paul, John e George (qui denominatesi Beat Boys) nei cinque noti evergreen e jazz standard My Bonnie, When The Saints Go Marching In, Why, Nobody’s Childs, If You Love Me Baby. E c’è anche tempo per due pezzi senza Sheridan: un’altra cover jazz come Ain’t She Sweet e la loro prima composizione tutta strumentale, firmata Lennon/Harrison, dal titolo Cry For A Shadow, un omaggio stilistico al soul-jazz o più palesemente al gruppo The Shadows che all’epoca imperversa tra i giovani britannici. Il resto è storia.


Ma per capire il fenomeno Beatles arrivano sempre nuovi libri, anche dall’Italia, persino due romanzi come Strawberry & Beatles di Fabrizio Terreno (Ananke) e Io volevo Ringo Starr di Daniele Pasquini (Intermezzi). Ci sono poi, recentissimi, due saggi particolari: Immagina una città. L’utopia di John Lennon a cura di Marco Denti (Feltrinelli) allegato al DVD Lennonyc (documentario per la regia di Michael Epstein) e il volume d’immagini Liverpool e il mito dei Beatles. Viaggio fotografico di Beppe Brochetta (Del Faro), che s’aggiungono alle decine di titoli ormai editi anche nel nostro Paese. Si tratta però spesso di testi legati all’aneddotica, mentre latitano studi seri sul sound beatlesiano: e dire che ogni anno a Cuba si tiene un convegno di studi proprio sulla musica dei Fab Four; purtroppo i risultati non sono resi noti, ma è probabile che qualche accademico locale sviluppi di certo una o più analisi, in profondità, sui rapporti tra jazz e Beatles che sarebbe bello poter leggere e divulgare.