Stephan Micus – Panagia

Stephan Micus - Panagia

ECM Records – ECM 2308 – 2013




Stephan Micus: voce, cori, zither, chitarra a 14 corde, cimbali tibetani, gong cinesi, campane di Burma, sonagli, dilruba, sattar, sitar Chitrali, nay





Progressivamente sempre più difficile sostenere un approccio laico per l’opus del bavarese Stephan Micus, atipico poeta che dagli esordi, a margine delle prima fenomenologia world, ha mostrato un distacco progressivamente più esplicito da un’agnostica ecologia sonora verso una forma di panteismo che discende lungo connotazioni più identificabili per l’incorporazione di codici propri di culti distanti ma accomunati da purezza e pratiche di rigore.


Ciò, non solo per gli enunciati e le visioni fondanti (peraltro portate a compimento) del presente Panagia, quanto e soprattutto per la sacralità espressa dalla lineare consistenza delle forme, che attinge ai vertici dei modi estremo-orientali e alle accese, toccanti sobrietà ortodosso-bizantineggianti (prescindendo affatto dal peso semantico qui esercitato dalla lingua greca del cantato).


La mistica semplice, ma rorida d’implicazioni, sostenuta più letteralmente dalla forza dell’evocazione vocale, assume enfasi composta nei disvelamenti delle contemplazioni conclusive (You are a shining Spring) lasciate al raccoglimento strumentale, fino all’orientalismo più letterale (e più tipico del Micus delle prime sortite) di I praise You, Cloud of Light: tutte queste stazioni sono disciplinati passaggi emotivi a scandire l’incedere e la progressione della Luce, rendendo ulteriormente arduo separare le proporzioni entro cui operano istinto, costruzione o ispirazione (“illuminazione” sarebbe un termine forte, ma non sproporzionato negli intenti).


Il sensibile e volitivo performer solitario persiste nell’umiltà d’artigiano, che ha fondato il suo percorso su un’esplorazione quieta, ma anche spregiudicata, nel rivoltare con lentezza inesorabile l’espansione dei propri confini, e che ha incrementato il proprio arsenale di strumenti ritessendone la trama sonora e mutandone di senso l’anima: così è toccato al germanico zither, all’indostano dilruba, al caucasico duduk, al celtico bodhran, all’apolide dulcimer, e l’one-man-orchestra che detiene il primato dell’estensione e dell’inesausta curiosità, non ha mancato d’arruolare con naturalezza una batteria di vasi da fiori, d’approcciarsi con ritualistico rigore al vibrante monolite in seno alla cattedrale di Ulm, e di evolvere un proprio codice polifonico.


Mantenendo sospesa la corrente della Storia, convogliando le potenti e tuttora “risonanti” valenze del Mito pre-biblico (e magari pre-religioso), irradianti dalla culla medio-orientale verso le matrici del nostro sentire, la musicalità di Micus, d’incedere sobrio e provvista di quella naturale eleganza che sorge dalla semplicità, che ha saputo fungere da alternativa, ma più probabilmente da antidoto, alle precoci derive new-age e a certe mistificazioni del world (persistendo comunque in parallelo ad entrambi), scevra da solennità pompose e virtualmente aliena agli eccessi di colore, segna un punto ulteriore nella propria messa a punto nella lunga distanza, attraversata con la forza della Visione chiara e qui giunta sulla quiete di vette d’altipiano che con maggior nitore lasciano irradiare le tessiture armoniose dell’Artigiano sapiente.