Speech: Jazz e letteratura – Roma Jazz Festival 2013

Foto: Luca Labrini









Speech: Jazz e letteratura – Roma Jazz Festival 2013

Roma, Auditorium Parco della Musica. 20.10/2.11.2013


Speech è il titolo dell’edizione 2013 del Roma Jazz Festival in scena all’Auditorium dal 20 ottobre al 2 novembre. L’interazione tra la musica jazz e le altre forme d’arte è stato il filo conduttore che ha caratterizzato le ultime edizioni della rassegna, con quella di quest’anno incentrata sullo stretto legame e l’influenza della musica afroamericana con la letteratura, soprattutto quella americana. E molti sono gli esempi nel Novecento, dagli anni ’30 durante il rinascimento di Harlem, passando agli anni ’50 della Beat Generation fino alla più recente scrittrice premio Nobel Toni Morrison con il suo capolavoro del 1992, Jazz.


Il cartellone di questa edizione dall’ampio respiro internazionale manca del grosso nome di richiamo, ma si presenta sulla carta davvero ben assortito con parecchi spunti di interesse per una quindicina di giorni intensi. La formula è originale e in parecchi casi vincente con delle letture, affidate di volta in volta ad attori o critici musicali, orientate più o meno al jazz e dintorni, prima dell’entrata in scena dei musicisti; altre volte invece diventano parte integrante del concerto stesso come nello splendido omaggio a Chet Baker di Fabrizio Bosso e Julian Mazzariello, nel progetto Futbol del trio Girotto, Servillo e Mangialavite ed in quello di Erri De Luca, Chisciottismi, con Gabriele Mirabassi e Gianmaria Testa, oltre che nell’evento di punta che vede protagonista Amiri Baraka


Si parte il 18, dove una splendida anteprima fa da prologo al concerto inaugurale, in programma due giorni più tardi, con l’incontro tra la tromba di Paolo Fresu e l’elettronica di Martum_X. I due danno vita ad una sorta di dj set musicando delle diapositive tratte dal prezioso libro di Filippo Bianchi, 101 Microlezioni di Jazz, una raccolta di massime al jazz dedicate. Le basi alquanto asettiche e minimali trovano vita nel meraviglioso suono di un Fresu sempre poetico e lirico in qualsivoglia contesto venga chiamato a cimentarsi.


Il concerto d’apertura vede il ritorno di Joshua Redman con un quartetto acustico di elevata caratura, con la sala Sinopoli che si presenta quasi al completo. Il sassofonista californiano però ancora una volta non brilla in un fiume di note e pattern che faticano ad emozionare, con il fraseggio di un Goldberg al piano di contro ben più convincente ed una ritmica travolgente e moderna che entusiasma la platea. Redman suona poco lasciando carta bianca ai suoi partner, apparendo non convincente sia dal punto di vista improvvisativo che compositivo, lontano parente di quel musicista che infiammava i palchi negli anni novanta in cui era considerato la vera stella nascente del jazz moderno. Rimane comunque un concerto piacevole in tutta la sua durata, con la perla finale di una intensa Make The Knife dove viene finalmente fuori la raffinatezza stilistica che ci si aspettava.


Sofisticato, singolare e particolarmente complesso sono le credenziali di un talento unico come quello del pianista americano di origine indiana Vijay Iyer, che si presenta in quel trio diventato da un paio d’anni ormai la sua stabile formazione e che davvero ben si confà alla sua musica non certo convenzionale. Già dalla scelta del brano di apertura, Games di Steve Coleman, Iyer fa da subito ben comprendere il mood della serata: il pezzo infatti, già aspro e ricco di tensioni di suo, viene qui scomposto e ricomposto in maniera glaciale e senza un attimo di tregua . Un primo impatto forte, faticoso che prosegue anche e soprattutto nelle composizioni originali ma che, poco alla volta, ipnotizza e affascina, forte di un interplay tra i tre eccezionale. Atmosfere suggestive ricche di ricerca che lasciano spesso spiazzati in un equilibrio unico, perfetta fusione di linguaggi in cui si possono distinguere tratti di diverse culture in una perfezione quasi maniacale. Anche la popolare Human Nature, in un personale omaggio a Michael Jackson, viene qui totalmente stravolta in un tema sempre richiamato, ma con il brano che prende sempre direzioni diverse in una musica che guarda finalmente in avanti per quello che può essere definito come uno dei miglior talenti contemporanei.


Discorso diametralmente opposto per l’anziano musicista etiope Mulatu Astatke, venuto alla ribalta soltanto negli ultimi anni grazie alla serie di album Ethiopiques che gli hanno permesso di suonare sui palchi di tutto il mondo ottenendo ovunque un grosso seguito. Nonostante la nuova uscita discografica, Sketches Of Ethiopia, qui le sorprese sono davvero poche, con una prima parte piuttosto fiacca incentrata sui vecchi brani, ed una seconda, complice anche una migliore equalizzazione, decisamente migliore ma che non riesce comunque mai a convincere appieno.


Delude anche l’altra stella particolarmente attesa di questa edizione, il contrabbassista israeliano Avishai Cohen che, in questa sua unica tappa italiana, fa registrare il sold out. Il suo nuovo progetto, accompagnato anche da un’uscita discografica, è una fusione tra musica da camera e popolare in un viaggio musicale che abbraccia le tradizioni di diversi paesi con composizioni in lingua ebraica, spagnolo e ladino. Cohen, qui come su disco, è affiancato dal piano di Hershkovits, dal giovane batterista Nehemya e da un quintetto d’archi arricchito dall’oboe di Yoram Lakis. La musica proposta presenta arrangiamenti fini ed eleganti, con il contrabbasso di Cohen che fa da raccordo tra le due anime contrapposte della formazione. Il tutto però non riesce mai ad entusiasmare apparendo spesso fin troppo morbido e monocorde, addirittura stucchevole nei momenti cantati dallo stesso musicista israeliano in evitabili atteggiamenti da super star. Banali e senza anima anche i virtuosismi che regala nel primo bis prima di richiamare gli altri membri per i due pezzi conclusivi di un concerto che raccoglie una sorprendente standing ovation finale.


Pochi fronzoli e parecchi contenuti invece in quello che meglio rappresenterà l’essenza della fusione più alta tra jazz e letteratura nella serata che ha per protagonista una figura cardine della cultura afroamericana, quell’Amiri Baraka autore di romanzi, novelle e saggi, drammaturgo, critico di jazz. Classe 1934, Baraka porta in scena un reading accompagnato da un quartetto di assoluto valore in cui recita scritti e poesie militanti in stretta simbiosi con i brani eseguiti dai suoi musicisti, come già era solito fare negli anni sessanta in cui incideva e divideva il palco con Albert Ayler, Don Cherry e Sun Ra. Il repertorio musicale si poggia essenzialmente sui brani d’avanguardia più spinti e impegnati di quei tempi, dalla iniziale Lonnie’s Lament di coltraniana memoria per proseguire con temi di Paker, Gillespie e il più volte omaggiato Monk. Baraka enfatizza a ritmo di musica le letture di poesia beat intrecciandole con improvvisazioni free e mettendo in scena le lotte e la musica del popolo nero che rievocano le fumose serate della scena newyorkese degli anni sessanta e settanta in cui veniva con orgoglio data voce alle minoranze. Lo scrittore non si concede un attimo di pausa lasciando pochissimo spazio ai suoi compagni di palco, comunque notevoli nel musicare con sapienza i versi e dando vita ad uno spettacolo emozionante sotto ogni punto di vista.


Conclusione in grande stile per l’altra esclusiva del festival, l’unica tappa europea della Mingus Dinasty. Con la morte del geniale contrabbassista, l’ensemble si formò per volontà della moglie Sue per far continuare a far rivivere gli scritti e la musica dell’inarrivabile musicista. Chiamati a raccolta tutti coloro che avevano collaborato o tratto ispirazione dallo stesso, la formazione ha così preso vita nel 1979 e, in parte rinnovata, si presenta oggi composta di sette elementi, di cui quattro per una potente sezione fiati ed una più delicata ritmica diretta dal contrabbassista Boris Kozlov. Preceduti dalle sempre interessanti letture di Stefano Zenni, le composizioni di Mingus risuonano per una sera in tutta la loro genuinità, e già questo di per sé varrebbe il prezzo del biglietto. Ma la Mingus Dinasty non è tuttavia un bluff e ripercorre con passione e sentimento le varie tappe fondamentali della carriera di Mingus scegliendo tra l’immenso repertorio anche le composizioni meno note e facili. I brani, come nello spirito delle orchestre guidate da Mingus, diventano facilmente terreno per lunghi dialoghi sempre più tirati e trascinanti tra solisti, con al centro sempre la musica d’insieme. Manca inevitabilmente quell’energia molto fisica, unica dello stile del contrabbassista, così come l’eccellenza dei musicisti che figuravano nelle sue varie formazioni, ma la Mingus Dinasty non si lascia intimorire portando sul palco l’ironia e lo spirito ancora attuale della scrittura di Mingus con dei brani che ancora incantano come Open Letter To Duke, Goodbye Pork Pie Hat e la conclusiva Better Git It In Your Soul in mezzo ai vari altri cari temi proposti. Un degno concerto finale di una manifestazione che ha ancora vinto la sua sfida anche in termini di presenze riuscendo, anno dopo anno, a far avvicinare ed incuriosire sempre più appassionati mantenendo un altissimo livello qualitativo.


Lode e lunga vita al Roma Jazz Festival.