Foto: La copertina del libro
I ritratti in jazz di Murakami e Wada.
Murakami Haruki e Wada Makoto, Ritratti in jazz, Einaudi, 2013.
Ecco un nuovo libro sul jazz che non è critica, biografia, saggistica, musicologia, diaristica, sociologia, ma semplicemente una raccolta di duplici ritratti di 55 jazzisti. Duplici nel senso che c’è il ritratto scritto e quello pittorico, il primo di Murakami e il secondo di Wada. E senza nulla togliere al pittore (che riesce a sintetizzare alla perfezione il volto o il corpo del jazz man in questione, soprattutto quando inforca lo strumento, rielaborando o stravolgendo foto notissime) l’artefice di questo testo verbo-visivo è senza dubbio il romanziere.
Murakami infatti non solo è oggi il maggior scrittore giapponese, anche in Italia noto per i quattro romanzi Norwegian Wood, L’arte di correre, Kafka sulla spiaggia, 1Q84 (tutti usciti da Einaudi), ma soprattutto è da sempre risaputa la sua passione per il jazz, su cui spesso imbastisce interi libri come A sud del confine a ovest del sole, in parte autobiografico, partendo da una canzone di Nat King Cole; grazie alla gestione di un jazz club per diversi anni (e ancor prima frequentando da studente negli anni Sessanta i bar della città di Kobe dove si possono ascoltare unicamente dischi di jazz), senza mai considerarsi un esperto, arriva a cogliere a fondo la bellezza del sound di ogni improvvisatore alla tromba, al piano, alla chitarra, al sax, alla voce, alla batteria, al contrabbasso.
Concretamente questi ritratti in jazz, risalenti al 1997, nascono però a quattro mani: 55 dipinti a olio del grafico Wada Makoto, riguardanti primi piani di grandi solisti, orchestrali, cantanti, da Jelly Roll Morton a Eric Dolphy (praticamente il meglio del meglio dal 1920 al 1980 grosso modo), in uno stile fra pop-art e neo-espressionismo, trovano un pendant letterario nelle parole di Murakami, al quale spetta la scelta dei personaggi, in quanto non solo fine conoscitore ma soprattutto rigoroso collezionista di album in vinile.
Per ogni jazzman, accanto a una rapidissima biografia (spesso frettolosa) e alle copertine in bianco e nero (sic!) dei long-playing discussi, il volume presenta a tutta pagina le immagini a vivaci colori di Wada e soprattutto i ritratti letterari: Murakami qui non fa critica né giornalismo, né tantomeno musicologia o jazzologia, ma sceglie di evocare i momenti di un brano ascoltato o di tradurre verbalmente le sensazioni provate a un concerto o di rimando all’ascolto del microsolco, magari a casa in poltrona, mentre sorseggia un whisky o una birra.
Detto così parrebbe qualcosa di superficiale e impressionistico, ma la prosa dell’Autore intrisa di lirismi, analogie, slanci, metafore, è profonda e seducente, al punto da inventare un linguaggio nuovo per comunicare ai lettori (e agli ascoltatori) una poesia del suono che si chiama jazz. Qualche difetto del libro? Sì, non poter conoscere al momento il parere scritto (e quello visivo) di molti grandi jazzmen assenti – John Coltrane, Bessie Smith, Woody Herman, King Oliver, gli europei, tranne Django Reinhardt – benché la presenza di altri “minori”, soprattutto cantanti, giustamente riscoperti, compensi assai bene il tutto.