Imbiss, la ricetta sonora di Lorenzo Paesani

Foto: Federica Maria Giulia Nico










Imbiss, la ricetta sonora di Lorenzo Paesani.


Lorenzo Paesani lo avevamo ascoltato in Wayne’s playground, un disco dedicato alle musiche di Wayne Shorter. Progetto complicato e a rischio di ovvie ripetitività, ma che il pianista e i suoi due partener, Dario Mazzucco e Luca Dalpozzo, hanno affrontato con piglio contemporaneo e metodi moderni, dimostrando grande apertura mentale. Imbiss, nuovo cd per Abeat, nasce da quel modo di pensare, ne è il naturale sviluppo. Nove brani originali distribuiti tra loro tre, interplay telepatico che fa blocco unico, idee prese dal presente e rivissute in chiave letteraria e cinematografica; e poi sonorità che hanno piedi nella tradizione e occhi rivolti in avanti, verso suoni che chiamiamo avanguardia o battiti metropolitani.



Jazz Convention: Lorenzo Paesani, parlaci di te e di come sei arrivato al jazz?


Lorenzo Paesani: Ho scoperto il jazz ai seminari estivi di Siena Jazz e ho approfondito lo studio con Marco Di Battista, in un periodo in cui ero indeciso se intraprendere una carriera solista dopo il diploma in Conservatorio o se dedicarmi a un tipo di musica più “personale”, che mi avrebbe dato la possibilità attraverso l’improvvisazione di creare un mio linguaggio. Ovviamente ho scelto la seconda strada, mi è sembrata molto più attraente e aperta a nuove scoperte, rispetto a un repertorio concertistico classico che ha molte regole scritte e impone un rigore interpretativo che, ne sono convinto, ingabbia troppo nella tradizione a scapito della libertà personale.



JC: Quali sono i musicisti che ti hanno influenzato e se ci sono tra loro degli italiani?


LP: Sicuramente Herbie Hancock e Keith Jarrett, almeno agli inizi: il primo disco jazz che ho comprato è la colonna sonora di Round Midnight e ho avidamente “consumato” sia il Koln Concert che Facing You. Ora sono molto attento alla scena dell’avanguardia newyorkese, ovvero ai gruppi di Tim Berne, Ralph Alessi, Craig Taborn, Vijay Iyer. Per quanto riguarda la musica classica i miei idoli sono stati e rimangono tuttora Maurizio Pollini, Glenn Gould e Sviatoslav Richter.



JC: Perché hai scelto il pianoforte? Che significato ha per te questo strumento?.


LP: Il pianoforte mi permette di avere infinite possibilità timbriche e di pensare su scala orchestrale, capire a fondo arrangiamenti di Big Band o di sinfonie classiche e soprattutto è uno strumento che ha il dono dell’immediatezza: è piuttosto semplice il processo che porta dall’intuizione all’idea e al suono che le rappresenta.



JC: I tuoi ascolti e approfondimenti musicali sono solo jazz?


LP: Assolutamente no, anzi, la maggior parte della musica che ascolto è rock inglese anni ’70 e ’80, e ultimamente adoro la musica sinfonica moderna, soprattutto perché legata intimamente alle colonne sonore cinematografiche: penso a Bernard Herrmann o alle prime cose di Howard Shore per David Cronenberg, che esploravano la atonalità.



JC: Ci puoi introdurre i tuoi due partner, Luca Dalpozzo e Dario Mazzucco?


LP: Luca e Dario li ho incontrati a Bologna, dove ho vissuto per molti anni. Sono due musicisti molto aperti ad ascoltare cose nuove e a lasciarsi andare a improvvisazioni rischiose e talvolta senza struttura. Abbiamo avuto la possibilità di suonare quasi tutti i giorni insieme, sperimentando idee, allenandoci a suonare tempi dispari, sviluppando un’unione musicale e interpretativa che non avevo raggiunto prima con nessuno e, cosa per me fondamentale nella musica, siamo ottimi amici.



JC: Come nasce il progetto Wayne’s playground, disco che vi ha fatto conoscere come trio?


LP: Nasce da un amore comune per la musica di Wayne Shorter e dalla possibilità che hanno le sue melodie di essere traslate, dilatate, riscritte e variate senza perdere un filo del loro significato, un’esperienza molto stimolante da un punto di vista arrangiativo e compositivo.



JC: Imbiss, tuo ultimo lavoro, può essere definito un’evoluzione del disco precedente? Dal punto di vista tecnico e non solo…


LP: Direi di sì, dalla rielaborazione di brani di Shorter siamo passati a lavorare su nostre composizioni, cercando di avere un’identità riconoscibile come trio nonostante ognuno di noi scriva brani di tipo differente, secondo la propria sensibilità.



JC: Che cosa significa Imbiss?


LP: Gli Imbiss sono i chioschi turchi che vendono Kebab e altre specialità (talvolta meraviglioso “junk food”) sparsi ovunque in Germania: dopo un viaggio insieme a Berlino abbiamo pensato di associare il potere sociale dello street food, che raccoglie persone di tutte le età e credo politico, al tipo di musica che volevamo fare, piena di diversi rimandi culturali e influenze di ogni tipo che si sovrappongono…sperando di essere riusciti nell’impresa di creare un nostro linguaggio.



JC: Perché avete scelto come copertina un paesaggio desertico americano?


LP: Molte ragioni, tra cui una condivisa passione per Breaking Bad, ma soprattutto perché è un luogo dove ho sempre sognato di andare, per perdermi un po’.



JC: Quanto c’è di improvvisato e quanto di scritto in Imbiss?


LP: Dipende dai brani e dal compositore, alcuni (per esempio il mio Kid From Arizona) si basano sull’atmosfera creata dal tema, scritto e arrangiato per piano e contrabbasso, che si allaccia naturalmente all’improvvisazione, mantenendo intatto lo spirito iniziale della melodia; Sevenths Dance (di Luca Dalpozzo) ha un approccio “armolodico” colemaniano riguardo all’improvvisazione su un impianto ritmico definito, fluttuante; Contrast Principles (di Dario Mazzucco) lavora invece su un breve tema scritto, con ritmica jungle, che sfocia in una lunga improvvisazione timbrica collettiva senza struttura o impianto formale.



JC: Imbiss contiene nove brani originali ripartiti tra voi tre. Ci puoi raccontare come nascono? Cosa vi ha ispirato e influenzato?


LP: Abbiamo cercato di convogliare insieme le diverse influenze musicali di ognuno sviluppando un linguaggio di trio legato al suono collettivo e all’interplay, motivo per il quale non vi è un vero e proprio “leader” dichiarato. Ognuno nelle proprie composizioni ha portato il proprio mondo di esperienze e il suo bagaglio culturale anche extra-musicale, attingendo soprattutto dalla letteratura e dal cinema.



JC: Come valuti le esperienze fatte con questi due ultimi dischi? E dove ritieni che vi porteranno?


LP: Le esperienze sono state esaltanti e molto produttive, mi hanno aiutato a capire molto di me come persona e come musicista, soprattutto perché in un trio democratico bisogna costantemente mettersi in discussione cercando di non prevaricare e trovare una dimensione comune. Spero ci permettano semplicemente di andare avanti con la nostra musica, continuare a sperimentare, divertirci, trovare nuove soluzioni in trio a cui non avevamo mai pensato prima… e arrivare a condividere la nostra passione con un numero sempre più grande di persone.