Percussion-System: Incontro con Andrea Centazzo

Foto: Luca D’Agostino










Percussion-System: Incontro con Andrea Centazzo


Gli ultimissimi arrivati potranno non percepire una dimestichezza immediata con il personaggio, apparentemente defilatosi dalle nostre scene, che ha invece calcato con indiscusso prestigio negli anni di maggior esposizione mediatica e dignificazione culturale del free, toccando con palese merito una statura internazionale per aver militato soprattutto con le firme più prestigiose della musica creativa. Incluso storicamente nell’olimpo della percussione libera che nella sua manciata di nomi comprendeva Pierre Favre, Paul Lytton, Stomu Yamah’ta (e davvero pochissimi altri), Andrea Centazzo ha abbracciato quindi un articolato profilo professionale che ha compreso composizione, elettronica, multimedialità e produzione. Non mancando di rimarcare la diversità di punti di vista tra le sponde oceaniche, palesando una viscerale gentilezza che non esclude la capacità di menar fendenti sui meccanismi (talvolta assai perversi) dello show-business, una lucidità che lascia spazio alla confidenzialità e a gustosa auto-ironia, in questa intervista completa rilasciataci dall’adottiva Los Angeles si riporta alla viva memoria una preziosissima testimonianza dell’era più rischiosa e genuina del free, aggiornandoci anche sulle evoluzioni in parte inattese di un artista che della progettazione e del performing in musica si conferma, senza alcun dubbio, un protagonista.



Jazz Convention: Centazzo… dov’eravamo rimasti? Partendo con le memorie di chi ha “vissuto” gli anni ’70, giusto pochi giorni orsono rievocavamo con Franco Fayenz un’epocale prima uscita discografica per PDU.


Andrea Centazzo: Se penso a quegli anni… beh mi viene la depressione per la scena contemporanea. Al di là che ovviamente quarant’anni in più sul groppone fanno una sostanziale differenza, resta il fatto che in quegli anni la creatività sprizzava da tutti i pori, non solo nella musica ma nell’arte in genere, c’era voglia di nuovo e una curiosità del pubblico che spingeva a tentare l’impossibile: perfino il superare i limiti della credibilità.


Ricordo, come aneddoto, un concerto all’Arsenale, un piccolo teatro di Milano, in duo con Guido Mazzon. Avevo invitato Arrigo Polillo che era un mio estimatore. A un certo punto trovai nel retro palco un martello e dei chiodi e senza battere ciglio iniziai a metà del set a piantare chiodi sul pavimento. Polillo era impietrito in prima fila! Ma la recensione fu comunque: «In un impeto creativo Centazzo si è messo a piantare chiodi simulando le antiche tecniche di percussione» e via dicendo. Si dava dunque per scontata la buona fede dei musicisti perché, come diceva il famoso titolo, Now is the time (or better: then was the time) e tutti facevano qualcosa per superare i limiti del credibile. Purtroppo questo portò anche in pista un sacco di artisti fasulli, ma di quello fu piena l’arte di quegli anni.


Nella mia vita artistica sono debitore a un manipolo di persone: il primo è, senza dubbio, appunto Franco Fayenz che mi “scoprì» a delle conferenze che tenne a Udine credo nel 1970, dove io piccolo studente di provincia (e allora la provincia era veramente la giungla del Borneo, culturalmente – non che Udine sia molto cambiata da allora!) lo assillavo con domande e citazioni. Franco, che poi divenne un grande amico, mi portò alla PDU e mi fece fare il primo glorioso LP Ictus (un nome che poi passai alla mia etichetta nel 1976) e in seguito Fragmentos, il mio primo disco di sola percussione.



JC: Ma la lista dei nomi “storici” e degli incontri formativi non finisce certo qui.


AC: Il secondo fu Giorgio Gaslini che mi volle nel suo quartetto aprendomi le porte a una carriera che da neo-laureato in legge e destinato a diventare un avvocato di provincia era solo un sogno. Gaslini ebbe il difetto di considerarsi mio padre e quello scatenò dei dissapori personali visto che io avevo già un ingombrante padre avvocato da combattere… ma musicalmente fu una scuola eccelsa. Se Gaslini avesse avuto la lungimiranza di trasferirsi in quegli anni a New York a questo punto saremmo qui a parlare del vero rivoluzionario del post-jazz… La sua idea di usare la dodecafonia nel Jazz (precedente al nostro quartetto, di certo il suo quartetto più popolare) fu una di quelle illuminazioni che solo in un ambiente internazionale come New York potevano dare i frutti che meritava.


Il terzo fu Pierre Favre che nel 1970, quando per la prima volta mi avventurai fuori dall’oscura provincia per partecipare a uno dei primi workshop organizzati in Europa (in quel caso a Wengen in Svizzera), mi spinse e convinse che la strada della musica era la mia. Ricordo come fosse adesso che mi disse: «La tecnica viene con lo studio, ma il concetto e le idee sono solo delle persone creative. E tu hai entrambe le doti» Nel 1977 poi registrammo Dialogues (sempre su Ictus) che resta un gran bell’album di musica e amicizia.



JC: E quindi?…


AC: Il mentore successivo fu l’enigmatico Steve Lacy, che non solo accettò di suonare con me sconosciuto dopo aver ascoltato quei primi LP ma anche mi apri gli occhi su quale è la vera essenza dell’improvvisazione. Ci trovammo a Milano in un uggioso pomeriggio per provare prima del concerto serale. Io ero letteralmente terrorizzato! E quindi vista anche la disciplina che Gaslini applicava alla sua musica, chiesi timidamente «Ma cosa vuoi che suoni?» Intendendo se c’erano particolari arrangiamenti dei suo temi. La risposta fu “Play what you feel”… come aprire una finestra in una stanza buia. Fu lì che iniziai la mia esperienza nella musica creativa. Esperienza che poi ha avuto varie facce ma sempre connotate da un desiderio di cambiare e fare solo quello che mi sentivo di fare.


Ultimi da non dimenticare sono stati i miei maestri di composizione Armando Gentilucci e Sylvano Bussotti. Entrambi affascinati dal mio mondo percussivo – Gentilucci scrisse per me un brano edito Ricordi intitolato “Polifonie per Andrea Centazzo” – mi aiutarono a penetrare l’essenza dello scrivere musica. Non ho avuto una formazione musicale accademica e i due compositori furono fondamentali per permettermi il passaggio dalla concezione compositiva jazz a quella della nuova musica. Verso metà degli anni 80 iniziai ad avere una visione più estesa della comunicazione e mi improvvisai (con molta fortuna devo dire! – il mio film Tiare fu premiato in tutto il mondo) regista video e quindi passai ad una scrittura più melodica e minimalista della mia musica (culminata con le mie tre opere liriche 1996/2000/2001) per poi approdare dal 1998 alla multimedialità integrando i linguaggi video e musicale in un’unica formula. Questo evidentemente in un paese miope come l’Italia non è mai stato né capito né accettato e difatti dal 1996 nessun organizzatore del cosiddetto jazz mi ha più chiamato.


Nel frattempo con la resurrezione della Ictus Records, dal 2006 invece qui in USA ho ripreso a fare concerti di percussione con gli improvvisatori della mia infanzia (musicale), John Zorn e molti altri. Sembra che il mio ritorno sulla scena abbia proprio interessato per questo motivo: la musica che oggi presento ingloba gli elementi delle mie ricerche negli anni passati lontano dalla scena della musica improvvisata/jazz e quindi ha indubbiamente una trasversalità che la differenzia. E questo, ad esempio, ha colpito molto Liz Horton nella recensione che ha scritto per The Soul in the mist su jazzreview.com. Lo scorso anno poi alla celebrazione della Ictus voluta da Zorn alla Stone ho chiamato e suonato con estremo piacere con i musicisti italiani con cui avevo collaborato negli anni ’70/80: loro mi avevano dimenticato, ma io, come l’eroe degli spaghetti western, non dimentico.



JC: A questo punto, una tua panoramica dei protagonisti e della discografia del free di allora, e quale valore attribuisci loro con la cultura (e le orecchie) di oggi.


AC: Per quel che mi concerne, essendo stato – anche se in Italia lo si è dimenticato – uno dei fondatori della Downtown Music Scene nel 1978 e alcuni LP Ictus, adesso su CD, testimoniano quegli anni fantastici, per me in quegli anni quei musicisti – da Zorn a Corra a Chadbourne a Kaiser, ROVA e via dicendo – rappresentarono un autentico stimolo creativo. Si pensi che quando un paio di anni fa Elliott Sharp mi invitò a registrare e a suonare dei duetti con lui, mi confessò di essere stato uno degli spettatori che venne al mio concerto a NY al mitico CBGB e che quello gli aprì gli occhi sull’improvvisazione. In quegli anni poi scoprivo la musica balinese e il minimalismo, quello originale del gamelan: un amore che mi sono trascinato dietro fino al 2002 quando finalmente sono riuscito a realizzare il sogno di uno spettacolo multimediale con un gamelan balinese, un ensemble occidentale e proiezioni integrate Sacred Shadows, sempre uscito per Ictus. In quegli anni poi mi affascinò Henry Partch con la sua microtonalità e tutta l’avanguardia americana, meno prona agli stilemi ingessati di quella europea e più aperta alle contaminazioni. George Crumb fu un esempio meraviglioso di come coniugare la musica con il pensiero filosofico. Molte di quelle esperienze oggi sono ancora all’avanguardia: anzi, a me sembra che la cosiddetta avanguardia del nuovo secolo sia un rifacimento in tono minore di quello che facevamo negli anni ’70. Giorni fa mi hanno invitato a un festival a Long Beach, in California, dove giovani di belle speranze sperimentavano sull’improvvisazione, l’elettronica e le contaminazioni danza-musica-performance. Ero sgomento… mi sembrava una scena da Back to the future: mancavano solo i calzoni a zampa di elefante per completare la scena. Questi ragazzi non hanno una visione retroattiva e probabilmente in buona fede non si accorgono di riproporre cose già sentite e digerite da tre generazioni. Tre anni fa a New York ho diretto il Concert for Piano and Orchestra di John Cage basato su un ingegnoso metodo di temporizzazione che all’epoca quando fu scritto era ottenuto con l’ausilio di un cronometro e che nella mia versione invece era basato su un programma creato per me da uno scienziato della NASA. Nella stessa serata avevamo 3 set: Philip Glass solo, Zorn ensemble e io con l’orchestra. A confronto della musica di Cage, il resto sembrava un valzer viennese… Con tutto il rispetto e ammirazione per Philip e John, e ovviamente per Strauss… Questo per dire che negli anni ’60 e ’70 si è veramente cambiato molto. Anche se non dobbiamo dimenticare che Edgar Varèse – con Octandre e Ionisation – o George Antheil – con Ballet Méchanique – avevano già negli anni ’30 rotto gli argini.



JC: Chi guardava la TV negli anni ’70, quando c’erano tre canali e al massimo Tele Montecarlo, si ricorderà – forse – di un coraggioso programma chiamato ConcertAzione. Che tempi erano quelli? E che tempi sono mai gli attuali?


AC: Il dramma dell’Italia non è incominciato con Berlusconi al governo ma ben prima, con Berlusconi e le sue dannate televisioni commerciali. Da ConcertAzione si passò a Drive In e il salto fu, per me e i musicisti della mia generazione, devastante. L’abbassamento del livello culturale generale fu epocale: il trio donnine-canzonette-denaro divenne l’imperativo della Milano da Vomitare di quegli anni e dell’intera nazione. Il pubblico finalmente si liberò dai sensi di colpa che aveva a non ascoltare Mazzon-Centazzo – anche se poi a casa probabilmente ascoltavano comunque Baglioni – e a non guardare Carmelo Bene e gioiosamente si dimenticò di un decennio di creatività. Da lì al Grande Fratello la strada è stata tutta in discesa e, grazie a una classe politica corrotta e vile, il panorama culturale italiano non esiste più, almeno come si intendeva in quegli anni. E i pochi che avendo maniglie politiche hanno ancora il potere di organizzare festival o stagioni di quel tipo sono protagonisti di un movimento snob e reazionario dove l’avanguardia è diventata di nuovo élite per pochi. Se penso che con Mazzon si suonò al festival di Villa Borghese nel 75 davanti a 5000 persone in religioso silenzio e chi aprì il concerto era uno sconosciuto Branduardi – che già allora se la menava assai – e che con Gaslini si suonò con gli Inti-Illimani per il Cile davanti a 10.000 persone – che si sorbirono anche l’elettronica intestinale del buon Gigi Nono – mi viene da chiedermi se quegli organizzatori non farebbero meglio a spendere i soldi in vacanze a Cuba… Tanto comunque io non ci perdo nulla visto che nessuno si sogna di chiamarmi.



JC: Al pubblico del free di allora si poteva attribuire l’appartenenza ad una determinata “fascia” ideologica. Il mutamento della politica globale – ma anche della diffusione della musica, tramite le piattaforme in rete – cosa avrebbe cambiato nell’atteggiamento e nelle attenzioni del pubblico?


AC: La rete è stata per questa musica la principale nemica e quella che secondo me ne ha determinato il pietoso stato odierno. Spiace dirlo visto che Internet è la nuova frontiera della comunicazione e per altri generi è stato il toccasana, ma non per la musica sperimentale. Il mercato dei CD non esiste quasi più e mentre un download di Madonna (se mai qualcuno la scarica ancora) è ovvio, un download di Steve Lacy non lo è. Questa musica viveva un rapporto diverso e feticista con il mercato e quel rapporto passava attraverso gli album con le loro note di copertina, la qualità delle registrazioni, la possibilità di comunicare con il musicista attraverso l’ascolto ripetuto. Oggi tutto ciò è scomparso. Io poi come produttore mi sono ritrovato negli ultimi anni a vedere i CD Ictus venduti in quantità che vanno da 30 a 80.. Vabbé che non si tratta di un’etichetta discografica che fa promozione o quant’altro, ma comunque questa è la realtà. Se si aggiunge poi che in ogni blog di genere, appassionati caricano sulle loro pagine le musiche senza pagare un diritto e senza neanche chiedere il permesso (cosa ancora più offensiva) si capisce come Internet non sia stato proprio una panacea per chi fa un certo tipo di musica. E poi, come si fa a scrivere a un blog che proclama il tuo disco “fondamentale” per lo sviluppo della musica contemporanea chiedendogli di rimuoverlo? È un po’ come spararsi in bocca… Questo ovviamente fa parte della cultura contemporanea in cui «tutto quel che c’è in rete è gratis». Solo che se uno fa un upload e download di un brano della Sony si trova gli avvocati in casa e se uno lo fa di un brano Ictus deve anche sentirsi dire bravo. E poi, la rete ha sviluppato le politiche coercitive nei confronti dei musicisti. Prendiamo Facebook. Un giorno un furbacchione universitario con tempo da perdere mette su una pagina che poi diventa come la peste bubbonica nell’Europa medioevale e miete milioni di vittime. Se sei un musicista e non sei su Facebook non esisti. Punto. Quindi sei costretto ad esserci anche se odi Zuckenberg e la sua maledetta velenosa creatura. Poi, se hai ancora energia, devi rispondere alla centinaia di richieste che ti arrivano dai soci di un altro “social” del nulla, Linkedin. Sono anni che tutti perdono tempo su questa piattaforma e non serve assolutamente a nulla! Chi mai guarda i profili? Chi offre lavori? Nessuno… Almeno io, su Facebook, sfruttando il fatto che ci sono molti percussionisti che mi chiedono “friendship” (ma che cosa è?) sono riuscito a vendere la mia strumentazione: ma è troppo poco per essere contento. Mi fermo qui con i social network, altrimenti la bile inizia a travasare.



JC: Jazz. Poi le musiche da palcoscenico, colonne sonore, nuove produzioni. Quindi il grande salto. Quali le visuali dalle due sponde dell’Oceano?


AC: La cosa buffa della mia carriera è che la cosa più importante passi inosservata. Ho scritto musica da camera, Concerti per orchestra, tre opere liriche di cui quella dedicata a Tina Modotti è stata rappresentata anche qui in California, e la cosa passa nell’indifferenza generale! È un atteggiamento tipico di una cultura – quella italiana – che non ha vasi comunicanti. Un altro aneddoto divertente: nel 2001 quando Bologna Capitale europea della Cultura mi commissionò l’opera lirica Simultas ebbi un incontro con il direttore artistico del Teatro Comunale di Bologna, un tale D’Amico, per discutere gli aspetti produttivi dello spettacolo. Mi presentai e vidi un certo sgomento sulla faccia del tizio che incominciò a borbottare «Centazzo, Centazzo… mi ricorda qualcosa. Ma Centazzo non era un famoso batterista?» E io prontamente «Ah, si quello è mio cugino, il batterista jazz…». Per un direttore artistico di uno dei templi della lirica italiana la notizia che un batterista fantasista potesse aver scritto un’opera per 5 cantanti, coro e orchestra sarebbe stata l’equivalente di un colpo apoplettico e quindi gli feci tirare un sospiro di sollievo. Questo non succede qui in USA dove non importa da dove vieni e chi sei ma cosa fai. In Italia eravamo al punto – ma penso non più visto che ormai fa fede solo X-Factor – che quando nel 1990 sposai la causa ambientalista e con Greenpeace, WWF e Fondazione Cetacea produssi un album dedicato ai mammiferi marini in estinzione – Cetacea appunto, sempre su Ictus – una rivista dedicata all’avanguardia scrisse un articolo definendomi «l’Infame della musica» solo perché dall’avanguardia ero passato a una musica più vicina alla New Age. Probabilmente era solo una petizione di principio fatta senza ascoltare neanche una nota della mia musica, perché in Cetacea si ritrovano gli stilemi di Indian Tapes, il set di 3 LP che Polillo premiò in pompa magna nel 1980 con il Premio Speciale della Critica Italiana. La cosa curiosa è che in quegli anni mi vidi rifiutare qui un sacco di progetti – tra cui un CD dedicato agli animali sacri dei Nativi Indiani, The secret of joy – perché erano troppo “colti” per il pubblico new age. Quindi stando in mezzo, come si suol dire, non vai da nessuna parte. Il mio litigio con Hollywood iniziò subito appena trasferito qui nel 1990 e non è mai finito. Il contratto di esclusiva con la Warner Chappel fu un capestro e le cose proposte da loro un insulto all’intelligenza. Poi alla fin fine di colonne ne faccio, ma solo per indipendenti e con film particolari. Adesso, forte di 35 anni di video, e con i relativi premi, e con una nuova tecnologia a portata di mano, ho deciso di saltare la staccionata e di fare il mio primo film: poi se son rose fioriranno. La colonna sonora magari la faccio fare a Philip Glass. Devo dire che l’inserimento qui a L.A. non ha presentato difficoltà a livello personale e di vita quotidiana avendo comunque io frequentato gli USA fin dal 1976 e nel 1978 c’è stata la mia tournee americana con Zorn, Cora, Chadbourne, Kondo, Kaiser. Difficile invece è stato appunto l’approccio con la realtà di Hollywood, un mondo di cartone dove tutto va per formule; la mia musica per quanto edulcorata e di sapore New Age era comunque di taglio troppo avanzato per piacere a registi insicuri anche del catering. Rileggevo proprio giorni fa la biografia di Edgar Varèse – amato musicista, soggetto delle mia tesi di laurea in musicologia – e ritrovavo nei suoi sterili tentativi di diventare un musicista hollywoodiano un po’ di me stesso. Ho fatto quindi pochissimi film e invece mi sono concentrato sulla composizione, cosa che mi ha poi portato nel 94 a scrivere A Bosnian Requiem – pubblicata su Ictus – per orchestra sinfonica: un lavoro che ho diretto a Los Angeles con la American Youth Symphonic Orchestra. E poi il mio lavoro più noto l’opera lirica Tina, dedicata a Tina Modotti, diretta e messa in scena da me con Ottavia Piccolo in Italia e Lumi Cavazos (protagonista di Come l’acqua per il cioccolato) a Los Angeles. Nel frattempo a piccoli passi, spinto soprattutto da Remo Belli, mi riavvicinavo alla musica da strumentista con concerti solo e session d’improvvisazione. Nel ?99 mi si è offerta finalmente l’occasione di “avere una marcia in più” e sono diventato cittadino americano. Volevo anche cambiare nome in qualcosa di più esotico, ma poi visto che ho comunque due cittadinanze ho deciso di rimanere con il nome da “marcia in meno”. Ovviamente sto scherzando, la cittadinanza americana l’ho presa soprattutto per mandare a casa Bush, ma non mi è riuscito! E così sono rimasto con un nome da marcia in meno e un presidente idiota in più. Poi è arrivato Obama con i suoi chiaroscuri. Trovo comunque che pur con tutte le sua contraddizioni, il mio nuovo paese rimanga stimolante e imprevedibilmente pieno di opportunità.



JC: L’apertura alle elettroniche e ai materiali orientali e l’apparentamento a certe vedute New Age: di quest’ultima non sembra tu abbia un’accezione negativa.


AC: Io veramente non ho una accezione negativa di niente. Oggi ascoltavo alcuni vecchi pezzi dei Bee Gees e, sarà per la demenza senile o perché il traffico era veramente pestilenziale, mi sono ritrovato a canticchiarli appassionatamente. Però dopo tre pezzi ho inserito il CD con L’Adagietto dalla Decima sinfonia di Mahler. Certo che definire la mia elettronica New Age è un po’ come definire una Ferrari una Fiat – magari modello Duna, l’unica macchina che si capottava da fermo. Sono sempre parte dello stesso gruppo produttivo, ma magari c’è anche qualche sottile differenza. La chiave di volta per capire le evoluzioni (o convulsioni?) stilistiche della mia musica sta nel suo riferirsi alle musiche del Far East. L’uso di certi strumenti e l’ascolto continuo di certe forme musicali come il Gamelan, la musica per il Kabuki, l’opera cinese ha veramente dato un filo conduttore a tutto quello che ho fatto. Questo per la mia parte come percussionista ovviamente. Per l’elettronica ci vogliono vari distinguo. La ricerca sul suono è la prima parte del mio incontro con l’elettronica. E risale agli anni ’70. Se si ascoltano opere come Indian Tapes o Realtime, si possono ascoltare esperimenti sia di musica concreta sia di elettronica pura con l’utilizzo dei primi sintetizzatori e generatori dell’epoca. Il secondo incontro è più ravvicinato ed è con i campionatori e il computer. Questo risale a metà degli anni ’90, ma ho dovuto aspettare la tecnologia per mettere in atto quello che avevo in testa già negli anni ’80. Un concerto in cui dal vivo fossi in grado di suonare le percussioni e con la medesima tecnica (grazie a una tastiera MISI simile a un vibrafono) avere una pletora infinita di timbri strumentali. Questo è il cuore del mio lavoro odierno negli spettacoli multimediali che faccio, in cui coniugo la mia musica fatta appunto dal vivo su strumenti a percussione con i suoni generati dal computer e manipolati attraverso l’uso della suddetta tastiera. Proprio ieri ho avuto un appuntamento alla NASA per discutere del nuovo progetto solo multimediale (il precedente Einstein’s Cosmic Messengers sulle onde gravitazionali era prodotto da LIGO, NASA e Caltech). Qui entrerà in campo la trimensionalità. Lo spettacolo basato sulle immagini che Curiosity ci sta mandando da Marte, vedrà il suolo marziano ricostruito con le proiezioni su piani inclinati. Un lavoro tecnologicamente avanzatissimo: curiosamente una delle installazioni promozionali (outreach) per la missione Juno (la sonda che sta viaggiando alla volta di Giove) si è avvalsa delle stesse immagini delle macchine di Leonardo da Vinci che io ho utilizzato per l’altro mio spettacolo multimediale prodotto dall’Air Museum di Palm Spring Eternal Traveler, (ancora Ictus), dedicato appunto a Leonardo da Vinci. Percussioni orientali e campioni di strumenti di quelle tradizioni abbondano invece in Mandala (Ictus) l’unico dei miei spettacoli multimediali che abbia avuto più di una rappresentazione in Italia. L’altr’anno anche, sorpendentemente, in un festival jazz in Sardegna: chi l’avrebbe mai detto, Centazzo a un festival Jazz italiano.



JC: Attualmente sei manager – o il termine che preferisci – delle nuove edizioni Ictus. Palestra inestimabile di incontri top-level. Certamente molti e grandi ricordi dei personaggi coinvolti ma soprattutto grandi momenti musicali consegnati alla memoria.


AC: La Ictus è la classica cattedrale nel deserto… finanziario. La verità è che la Ictus è sempre stata una palestra di idee e non una impresa minimamente commerciale. Non sono un manager purtroppo, altrimenti le cose sarebbero andate in maniera diversa, credo. Sono solo un musicista innamorato dei progetti più assurdi e, evidentemente, finanziariamente disastrosi. Dalla sua rinascita nel 2005 è praticamente diventato un archivio del mio lavoro dove pubblico tutto quel che faccio in modo da lasciare “ai posteri l’ardua sentenza”. Fare una classifica delle cose più importanti è difficile. Senza dubbio i CD (prima LP) con Lacy sono delle pietre miliari del mio sviluppo musicale (e sembra che siano anche considerati i migliori del Maestro del Soprano nella formula duo). I lavori orchestrali sono anche quelli a cui tengo di più. Al di là dei miei concerti con liriche di Pasolini, del Bosnian Requiem per orchestra sinfonica e dell’opera Tina, i dieci CD della Mitteleuropa Orchestra a cui si aggiunge quello della Invasion Orchestra del 2012 a New York, sono stupefacenti per i musicisti eccezionali che ci suonano: Mangelsdorff, Dresser, Fresu, Rava, Trovesi, Zingaro, Ottaviano, Actis Dato, Jörgesmann, Koglmann, Malfatti, Mazzon, Schiaffini e molti altri. Comunque devo dire che nessuno costringe i musicisti a produrre dischi; anzi, se se ne producessero di meno forse sarebbe meglio… A me, nessuno mi ha mai costretto. Semplicemente volevo gestire la mia musica in maniera differente. E le etichette dell’epoca nel 1976 non mi davano certe possibilità. All’epoca comunque eravamo in pochissimi e quindi i dischi avevano visibilità, cosa oggi impossibile. La verità è che i dischi sono quasi morti come medium. Non sono neanche più necessari come auto-promozione: se infatti un organizzatore o giornalista vuole ascoltare un gruppo va sulla pagina del gruppo su Facebook, Myspace.com o simili siti e fa lo streaming in tempo reale. All’epoca gli LP erano un mezzo importante di trasmissione della musica e l’autoproduzione mi permetteva la totale libertà espressiva. C’era anche un mercato che permetteva un recupero delle spese e una continuità nella produzione. Oggi visto il moltiplicarsi delle etichette e la concorrenza dei downloads è sempre più difficile. Direi impossibile. Io ho resuscitato la Ictus per riorganizzare tutte le mie esperienze musicali in un corpus organico. Sono felice dell’accoglienza che sta avendo e del fatto che anche le cose più vecchie possano oggi risplendere di nuova luce grazie alle tecnologie di restauro ed editing digitale.



JC: Anche le esibizioni live hanno fatto incrociare grandi figure musicali: cosa vorremmo ricordare?


AC: Una domanda dalla risposta impossibile! Ogni CD uscito – e quelli inediti di quel periodo che stanno uscendo – e ogni concerto fatto sono un frammento della mia vita umana ed artistica e testimonianza di incontri straordinari. Difficile dire quale sia il preferito. Comunque se facessimo il solito quiz di cosa portare su un’isola deserta io opterei chiaramente per i miei lavori orchestrali, vale a dire The shadow and the silence, The heart of wax, Tina, Cjant e il box set di sei dischi della Mitteleuropa. Altrimenti, dovrei dire tutti! Come decidere tra un duo con Lacy e uno con Bailey? Tra il sestetto con Zorn e Corra, per altro da lui prodotto, e il trio con Parker e Curran? Troppi musicisti eccelsi – e uomini di grande caratura umana – per poter scegliere. Ovviamente un rapporto privilegiato è stato quello con Steve Lacy. Posso solo ripetere che Lacy è stato quello che ha squarciato il velo, come si suole dire: in ogni caso un uomo chiuso in quegli anni, ma con una generosità artistica sorprendente. Se dovessi comunque ricordare incontri straordinari dovrei mettere al primo posto quello con i mei idoli, i musicisti balinesi. Provare nella giungla a Bali e poi fare gli spettacoli in Italia è stata una esperienza umana e musicale indimenticabile. Di una cosa ho un gran rimpianto: negli anni ’80 feci un unico concerto in duo con Don Cherry e so per certo che qualcuno registrò quell’incredibile esperienza… ho cercato per anni di localizzare chi possedeva quella cassetta che so per certo registrata, ma finora è stato impossibile trovarla. Magari un giorno rispunterà in rete come il concerto in trio del Lirico di Milano con Lacy e Carter, che ho appena pubblicato come Lost in June su Ictus. Non ultima devo ricordare Gabriella Ravazzi una straordinaria soprano che passò con disinvoltura dall’Opera di Luigi Nono al mio Concerto per Pasolini (The Shadow and the Silence sempre su Ictus). Fu una mia entusiasta sostenitrice. Una musicista straordinaria con una visione a tutto campo unica nel mondo musicale italiano di quegli anni.



JC: L’osservazione del tuo drum-kit (o forse meglio: Percussion-System) evidenzia (in continuità con la batteria da te apparentemente prediletta) un’ordinata disposizione di frame-drums, piatti e gong. In primis, dunque, una potente concezione melodica della percussione.


AC: Questa favola che io prediliga la batteria non so da chi sia stata messa in giro! Non sono mai stato un batterista, anche se ho suonato la batteria in gioventù. Ma anche Riccardo Chailly suonava la batteria prima di diventare un direttore d’orchestra internazionale! Comunque dividerei il mio rapporto con gli strumenti in prima e dopo il 1990. Infatti avevo smesso di suonare nel 1990, essendomi dedicato alla composizione e alla direzione d’orchestra, lavorando molto per teatro e cinema. Poi nel ’98 mi chiesero di fare un concerto per sola percussione in un festival: prima declinai l’invito, poi accettai anche su spinta del mio amico genio della costruzione degli strumenti a percussione Remo Belli e così ripresi a suonare. Andò bene e così ricominciai a fare questi spettacoli multimediali, utilizzando il Kat Mallet, la prima tastiera elettronica a percussione che si poteva trasportare. In ogni caso sono sempre rimasto legato alle percussioni come mezzo espressivo solista. Ovviamente con un instrumentario ben circoscritto in cui i gongs hanno un posto di rilievo. Alle percussioni ho aggiunto dal 1984 il controller MIDI a percussione, Prima il Silicon Mallet Simmons e poi il Kat Mallet che uso ancora oggi come endorser. Ma solo da circa 7 anni la tecnologia mi ha permesso di fare quello che sognavo: collegare il controller (che ha la forma di un vibrafono/marimba con tasti in gomma) a un MAC e suonare in tempo reale tutti i campioni che voglio, richiamando sequenze, accordi e loops al solo premere un tasto. Così con l’integrazione dal vivo di suoni naturali e campionati, posso comporre lavori orchestrali e presentarli in solo. In tutto questo fin da principio ha giocato un ruolo fondamentale la mia attività di inventore di nuovi strumenti a percussione collaborando con la UFIP e creando il catalogo di percussioni metalliche Ictus 75 – ma guarda che coincidenza di nomi… – che tanto successo ebbe per 10 anni in tutto il mondo. Oggi centinaia di migliaia di percussionisti sul pianeta suonano l’Icebell, una percussione di mia invenzione. Purtroppo quando si è giovani si è anche entusiasti ed ingenui e così la mancanza di un brevetto ha fatto guadagnare gli squali del capitalismo musicale lasciandomi solo gli occhi per piangere. La stagione delle grandi invenzioni è purtroppo finita con la fine della mia collaborazione con UFIP nel 1986. Dopo ho solo collaborato con Remo per il mio set di tambourines che mi dà una trasportabilità oggi necessaria. Inoltre è difficile inventare se, alle spalle, non hai dei visionari illuminati come Luigi Tronci della UFIP. Oggi mi accontento di perfezionare le strutture del mio set per dargli massima trasportabilità aerea, visto che nelle tournée il costo maggiore è il trasporto strumenti. Si parlava recentemente con qualcuno qui di creare qualche cosa di nuovo, ma ci vuole tempo e danaro: cose che nessuno ormai ha più a disposizione vista la situazione finanziaria/industriale mondiale.



JC: L’alchimia tra composizione e performance secondo Andrea Centazzo.


AC: Ho sempre pensato, fin da quando mi sono affrancato dal ruolo di sideman che avevo con Gaslini, di essere un compositore che suona le percussioni, più che un percussionista vero e proprio. Anche nel mio lavoro di improvvisatore ho sempre cercato la struttura e la forma compiuta. Tra il suonare da solo cose composte e farle suonare ad altri, il passo non è stato complicato. È stata una naturale conseguenza del mio percorso artistico. Non ho fatto studi regolari di composizione in conservatorio, ma ho avuto come maestro il compianto Armando Gentilucci e brevemente Sylvano Bussotti che mi ha sintetizzato in un attimo alcune fondamentali verità per comporre con senso compiuto. La differenza tra comporre e suonare per un percussionista sta nella fatica a spostare e montare/smontare i dannati strumenti contro una beata quiete seduto davanti a un Mac, magari con le finestre aperte sulla spiaggia, come acade adesso. Comporre è esprimere me stesso a un livello più intellettuale e meno fisico che suonare uno strumento. Questo ovviamente viene fatto con estrema gioia e coscienza artistica. Non scrivo mai controvoglia: preferisco rinunciare ad un progetto se non trovo fonti di ispirazione. E scrivo sempre comunque “praticamente” e non “teoricamente” come i compositori classici. Chiarisco: non scrivo un quartetto d’archi se non so che qualcuno lo suonerà. La musica si concretizza solo attraverso gli esecutori; è quindi inutile scrivere una sinfonia nella speranza che qualcuno la esegua… o hai l’orchestra o meglio un pezzo per sola percussione! Inoltre non c’è una scelta costante e sempre voluta degli esecutori a meno che non sia io a mettere insieme l’ensemble… a volte è casuale (qualcuno che ti chiede un pezzo per il proprio ensemble) altre volte fai delle audizioni e altre volte semplicemente lavori con musicisti che conosci e stimi. Sulle opere pubblicate dalla Warner non ho controllo. Ogni tanto trovo che qualcuno ha eseguito in qualche concerto un mio pezzo e non posso che essere contento.



JC: Che bilancio potresti trarre a tutt’oggi circa il “mestiere dell’Artista”?


AC: In un mio concerto la prassi di fare sempre “solamente” quello che mi sentivo di fare ha avuto un prezzo da pagare. Circuiti che si sono chiusi, incomprensioni, poco lavoro: ma rifarei tutto da capo come ho fatto. La libertà non è gratuita. Se la vuoi la paghi… e i cocci sono tuoi. Certo alcune cose del mio passato le cancellerei: l’incidente in montagna, che mi tenne in rianimazione per 10 giorni e invalido per sei mesi; due pancreatiti; un paio di girlfriends o forse tre, una moglie di troppo, le Poste italiane, la Telecom, Alitalia e la vergognosa SIAE. Per il resto sono contento della mia vita: dovevo fare l’avvocato in una odiosa città di una provincia grezza ed ignorante e invece ho realizzato tutti i miei sogni, anzi my wildest dreams!. Sono perfino diventato cittadino americano, così per gli italiani del Jazz in teoria dovrei essere ancora più bravo, visto che in Italia anche un musicista con un nome sloveno è considerato migliore del migliore musicista italiano. Comunque non vedo una pensione nel mio futuro: al momento ho progetti fino al 2015, quattro film da musicare, due spettacoli multimediali in solo, due miei film e concerti ovunque. A Marzo 2014 debutta il nuovo spettacolo dell’Adler Planetarium di Chicago con mie musiche e Uma Thurman! E sto ripubblicando qui tutti i miei sei testi musicologici-organologici. Se aggiungo a tutto ciò che le mie opere sono catalogate alla Library of Congress e in Italia al DAMS di Bologna è stato istituito il Fondo Centazzo, unico insieme al Fondo Maderna, posso dire che l’unica cosa che mi manca è una bella vincita al Superenalotto: magari, se mi date qualche numero…