Slideshow. Gabriele Boggio Ferraris

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Slideshow. Gabriele Boggio Ferraris.


Jazz Convention: Così, a bruciapelo chi è Gabriele Boggio Ferraris?


Gabriele Boggio Ferraris: Sono un vibrafonista di 29 anni che ha appena pubblicato il suo secondo album da leader. Ho alle spalle una dozzina di anni passati a studiare batteria con alcuni grandi esponenti dello strumento in Italia, un laurea in strumenti a percussione e da qualche anno un’enorme amore per il vibrafono e per il jazz più in generale. Ho ascoltato, e continuo a farlo, tantissima musica di qualsiasi genere. Mi sento una persona curiosa, e quindi nella mia musica si possono sentire le influenze più disparate e miei amori musicali: da Monk a Bill Evans, da Pat Metheny a Brad Mehldau, ma anche i grandi autori rock anni 90 come Nirvana, Radiohead e Jeff Buckley.



JC: Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?


GBF: La musica ha sempre fatto parte della mia vita, anche se non provengo nel modo più assoluto da una famiglia di musicisti… però sin da bambino la musica dei grandi cantautori, non solo italiani, non è mai mancata nella mia quotidianità, questo grazie a mia madre. E quindi posso dire che sono cresciuto con le canzoni di De Andrè, Battiato, De Gregori e Leonard Cohen su tutti. Detto ciò una delle cose che ricordo con più lucidità è il fatto che nelle letterine a Babbo Natale non mancava mai la richiesta di una batteria.



JC: Quali sono i motivi che ti hanno spinto a diventare un musicista jazz?


GBF: Direi che è avvenuto tutto in maniera piuttosto naturale… però se ci penso bene direi che una scintilla scatenante c’è stata: avrò avuto 19 anni, suonavo la batteria da un mucchio di tempo e in diversi gruppi, delle più svariate estrazioni musicali, dal prog rock fino al reggae. Un giorno in una libreria fui attratto da un libro, l’autobiografia di Miles, quella scritta con Quincy Troupe. Senza un motivo apparente, ma solo spinto dalla curiosità, la comprai. Mi colpì profondamente, tanto che nel giro di pochi mesi successivi potevo vantare l’intera discografia di Davis in Cd. Da quel momento, senza troppa pianificazione, ho sentito il bisogno di avvicinarmi sempre di più a quel mondo musicale, non solo da semplice appassionato e “fruitore”, ma provando nel mio piccolo a farne parte in prima persona.



JC: E in particolare un percussionista jazz?


GBF: Questo è avvenuto perché frequentando il conservatorio, ho avuto la fortuna di conoscere e studiare la musica di artisti straordinari che hanno letteralmente inventato la letteratura strumentale di strumenti come vibrafono e marimba negli ultimi quarant’anni e cioè Gary Burton e David Friedman. Io sono figlio musicalmente degli anni ’90 e quindi ho, per fortuna, subìto una forte influenza musicale da parte di un mucchio di giganti della musica rock e sperimentale più in generale. L’arte di questi due artisti straordinari, Friedman e Burton, a cui aggiungerei anche Manieri, Corea e Metheny, affronta l’idea delle percussioni, e del jazz in generale in un modo molto vicino alle mie corde di “rockettaro”: basti pensare a tutta la produzione ECM del quartetto di Gary Burton, dei Return to Forever di Chick Corea o degli Steps Ahead di Mike Mainieri. Ecco, direi che in definitiva, questi sono gli ascolti e i motivi che mi hanno fatto pensare di voler fare il vibrafonista, e di suonare jazz in particolare.



JC: Ma cos’è per te il jazz?


GBF: Il Jazz come lo intendo io ha un’accezione molto molto vicina alla libertà in senso lato. Per me è la massima espressione di sé stessi in ambito musicale, la più forte forma d’arte musicale sviluppatasi nel secolo scorso. È un’idea di linguaggio, di espressione, di libertà che il nemmeno il rock più intellettuale e colto, o la musica classica e contemporanea più raffinata sono mai riusciti a raggiungere. Opinione personale, ovvio.



JC: Opinione rispettabilissima e condivisibile…


GBF: E paradossalmente, in virtù di ciò, per me è la forma musicale più diretta e immediata in assoluto. Forse potrà sembrare ambiguo e poco chiaro, ma io credo di avere un’idea di Jazz piuttosto allargata… voglio dire, che cosa accomuna Charlie Parker con Aaron Parks? Eppure nei negozi vengono venduti sotto lo stesso genere. È questa la forza del jazz, secondo me: essere sempre in evoluzione, una continua ricerca di forme ed espressioni nuove, con un sguardo rivolto sia al passato, nel rispetto e nella comprensione dei grandi che per primi hanno percorso questa strada, sia al presente e a quello che oggi è l’espressione della società moderna. Come potrebbe non essere altrimenti? L’arte è sempre stata, e sempre sarà, la riflessione dell’uomo sul suo tempo, sulla sua realtà.



JC: Quali sono le idee, i concetti o i sentimenti che associ alla musica jazz?


GBF: Come dicevo prima per me il jazz rappresenta una forte idea di libertà. Sono diverse le idee e i concetti che associo al jazz. Da un lato, nonostante possa apparire contradditorio, l’amore e la passione per una certo rigore nelle forme, nello studio e nella preparazione che una musica del gente prevede. Se vuoi fare jazz, e se vuoi ottenere buoni risultati, devi studiare, e tanto, non si scappa. Dall’altro lato però quello sconfinato senso di libertà di ricerca e di espressione della propria personalità che si manifesta anche quando ci si ritrova ad eseguire uno standard. Insomma più hai studiato, più hai cercato “la strada” dentro di te e dentro le esecuzioni incredibili dei giganti di questa musica, più sei libero di capire, di godere, di trasmettere qualcosa. Ascoltare Jarrett che suona I’ll Remember April, Metheny che improvvisa su Solar o Mehldau che ti incanta con la sua polifonia, ecco, per me quelle continuano ad essere esperienze di una profondità e di una forza comunicativa difficili da esprimere a parole.



JC: Tra i dischi che hai fatto ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato?


GBF: Beh, ovviamente il mio primo album, Say the Truth, uscito sempre per Dodicilune, in cui mi accompagna una ritmica di livello internazionale formata da Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli. Quel lavoro nasce da una mia proficua collaborazione con uno straordinario pianista di Milano di nome Mirko Mignone, un musicista preparatissimo e molto raffinato della scena milanese, che oltre ad essere un caro amico, è in qualche modo il mio primo vero maestro per quanto riguarda gli aspetti stilistici e armonici di questa musica. Diciamo che il disco è un vero e proprio lavoro a quattro mani – i pezzi sono infatti metà miei e metà di Mirko – e rappresenta molto bene tutto quello che è il mio amore per le sonorità del jazz ECM di cui parlavo prima.



JC: Ci parli ora del tuo nuovo CD?


GBF: Il mio nuovo album è si chiama Django’s Roots ed è un lavoro a cui sono davvero molto molto affezionato. Suggella perfettamente la mia biennale collaborazione con uno straordinario chitarrista di Milano di nome Daniele Gregolin, uno dei maggiori rappresentanti europei della chitarra manouche.



JC: Con Bregolin è da tempo che suoni, giusto?


GBF: Con Daniele ho avuto la fortuna di fare davvero moltissimi concerti in duo negli ultimi anni e si è creata una fortissima sintonia dal punto di vista sia umano che musicale. Inoltre, nel gennaio 2012, mi è capitato quasi per caso di condividere impalco con un vero e proprio gigante della batteria italiana, cioè Massimo Manzi. Anche con Massimo è scoccato immediatamente un feeling davvero forte. D’altronde è praticamente impossibile avere difficoltà a suonare con lui: ha una tale esperienza e musicalità che ti mette immediatamente a tuo agio. Inoltre, cosa sempre molto gradita, è una persona davvero eccezionale.



JC: E con Daniele Bregolin avete affrontato un mostro sacro come Django Reinhardt…


GBF: Insomma, messi insieme questi elementi mi è venuto del tutto naturale pensare un’idea che ancora oggi reputo fresca ed interessante: omaggiare la musica immortale e splendida di Django Reinhardt in una chiave diversa, forse, e sottolineo forse, mai fatta prima. Da un lato il rispetto e la cura filologica dell’opera del chitarrista dal punto di vista melodico e armonico, dall’altro lato una sorta di rivisitazione in versione elettrica e “fusion” di un repertorio che purtroppo molto molto spesso viene snobbato da moltissimi musicisti jazz. La musica di Django è dal mio punto di vista ancora attualissima, e riveste, nella storia del jazz un’importanza pari a quella di giganti come Parker, Gillespie ecc.. Inoltre la sua figura è così affascinante, ed io ne sono ancora molto molto attratto.



JC: Dal punto di vista strettamente musicale come risulta il disco?


GBF: Django’s Roots è interamente composto da brani tratti dal repertorio che Reinhardt era solito suonare con Stéphane Grappelli. L’unica aggiunta originale che io e Daniele abbiamo apportato – il disco è interamente arrangiato a quattro mani – è composta da un paio di introduzioni a mo’ di fuga bachiana che rendono omaggio alla musica articolata e ritmicamente complessa di gruppi jazz rock anni settanta come ad esempio i Return to Forever di Corea.



JC: Parliamo ora di altri album: tra i dischi che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?


GBF: Oddio, questa è una domanda davvero ardua… sono così tanti e disparati. Così, sparando un po’ a caso, The art of a Trio Vol. 3 di Brad Mehldau, Koln Concert di Jarrett, Bright Size Life di Metheny, Trio in Tokyo di Petrucciani, Steamin, Workin’, Cookin’, Relaxin’ del Miles Davis Quintet, ma anche Nevermind dei Nirvana, Superunknown dei Soundgarden e Grace di Jeff Buckley. E anche una raccolta dei grandi successi di Leonard Cohen.



JC: Quali sono stati i tuoi maestri nella musica, nella cultura, nella vita?


GBF: Sono stati diversi, come ovvio e mi sembra impossibili citare tutti gli insegnanti che ho avuto e che continuo ad avere. Su tutti però quello che mi ha insegnato di più, e non solo dal punto di vista strettamente musicale, è indubbiamente Stefano Bagnoli. Lui è l’esempio perfetto di quello che io cerco nei musicisti: preparazione incredibile ed impeccabile, unita a una professionalità fuori dal comune e soprattuto ad una per niente scontata capacità di non prendersi troppo sul serio. Questo lo rende una persona ironica e umile come poche ne ho incontrate in questo ambiente musicale.



JC: E i vibrafonisti e batteristi che ti hanno maggiormente influenzato?


GBF: Beh, per quanto riguarda i vibrafonisti, mi sembra ovvio citare Gary Burton, indubbiamente la più grande fonte di ispirazione per chi si è avvicnato a questo strumento negli ultimi venti o trent’anni. Sinceramente devo dire però che i musicisti che più hanno influenzato la mia sensibilità musicale sono sicuramente i pianisti. Su tutti stravedo per Brad Mehldau. Per quanto riguarda i batteristi devo dire che ho amato moltissimo Antonio Sanchez, Jeff Ballard e Bill Stewart nel jazz, Gavin Harrison e Danny Carey per quanto riguarda la musica rock.



JC: Qual è per te il momento più bello della tua carriera di musicista?


GBF: Il momento più bello, e che ricordo con più emozione, è senza dubbio legato al giorno in cui ho ricevuto le copie stampate del mio primo album, Say the Truth: ero felice come un bambino e la sensazione di avere tra le mani la realizzazione concreta di qualcosa che fino a soli pochi mesi prima mi sembrava inimmaginabile è stata indescrivibile. Per me che sono un sognatore, qualcosa di davvero fantastico



JC: Quali sono i musicisti con cui ami collaborare?


GBF: Direi senza dubbio tutti i compagni di viaggio che mi hanno accompagnato in questi anni, da Stefano Bagnoli a Massimo Manzi, da Daniele Gregolin a Mirko Mignone a Giacomo Tagliavia, Alessandro Rossi e Carlo Gravina per citare quelli a cui sono più legato. Da qualche mese inoltre ho iniziato a collaborare con una straordinaria pianista/cantante di nome Elena Ruscitto: lei è uno dei musicisti più talentuosi che abbia mai incontrato, credo proprio ne sentirete parlare.



JC: Come vedi la situazione della musica in Italia?
Questa è una domanda da un milione di dollari… sinceramente credo che ci sia un mucchio di musicisti davvero in gamba che, a livello di preparazione non ha davvero nulla da invidiare ai colleghi internazionali. Se invece parliamo di situazione musicale più in senso lato, è molto difficile avere una visione unitaria e lucida. Io parlo da musicista e insegnante di musica nelle scuole, quindi la mia idea della situazione italiana è piuttosto condizionata dalla mia esperienza personale. Sicuramente quello che vedo è che da parte dei mass media non c’è una particolare attenzione alla musica, intesa come arte.



JC: Forse è un problema di cultura e di mentalità…


GBF: Troppe volte da noi in Italia la musica viene percepita come oggetto di consumo e non come produzione artistica. Inoltre ai bambini viene insegnato il concetto, del tutto italiano, che di musica non si vive e che è meglio dedicarsi ad un percorso formativo più sicuro e remunerativo. Questo è impensabile in paesi stranieri, senza volersi allontanare troppo basti pensare alle molte facilitazioni in più che hanno i musicisti in Svizzera, Francia o Germania, tanto per fare un esempio. In Italia fare il musicista non è impossibile, ma troppo spesso si rivela un salto nel buio della precarietà, dell’insicurezza per il futuro, che molti giovani, spesso assai talentuosi, non si sentono di affrontare. Questo è decisamente triste. E la cosa che fa ancora più rabbia è pensare al secolare patrimonio artistico e musicale che un paese come l’Italia si porta dietro da sempre.



JC: E tu come reagisci a tutto questo?


GBF: Nel mio piccolo sto pensando a provare a portare i miei progetti il più possibile al di fuori dell’Italia, dove sicuramente le istituzioni e le strutture adibite alla musica dal vivo sono più recettive ed attente al lavoro di un artista.



JC: E più in generale della cultura in Italia?


GBF: Oddio, forse questa è una domanda ancora più difficile. Francamente entrare nella testa di chi ci governa è impresa assai ardua e in fondo nemmeno tanfo entusiasmante. Dico questo perché credo che in gran parte la diffusione della cultura e la possibilità che essa venga recepita come come fonte di sviluppo e di ricchezza per un paese, in Italia è un’idea ancor troppo lontana. Basti pensare a quante volte nell’ultimo ventennio troppe volte abbiamo assistito a tagli al settore della cultura, dello spettacolo e della scuola. Questo, purtroppo, non è avvenuto solo con i governi berlusconiani. E quindi l’unica cosa che mi viene da constatare è che l’Italia è ancora lontana anni luce da questo punto di vista rispetto a moltissimi paesi, per primi quelli europei.



JC: Personalmente che soluzioni avresti?


GBF: Quello che bisognerebbe riuscire ad inculcare nella testa, non solo di chi ci governa, ma anche della maggior parte della media della società è quello che in Francia ad esempio hanno già capito da tempo: il cinema, l’arte, la musica, il teatro e la letteratura, se adeguatamente sovvenzionate e valorizzate possono essere una delle principali fonti di reddito per un paese, una straordinaria risorsa economica. Ma credo che purtroppo un così radicale cambiamento di mentalità sia ancora molto lontano dal realizzarsi e quindi in definitiva ancora piuttosto utopistico.



JC: Cosa stai progettando a livello musicale per il 2014?


GBF: Intanto, a dicembre, sarò impegnato in un tour in Giappone di due settimane circa, ospite del Wolfgang Quartet di Riccardo Lovatto, un giovane chitarrista piemontese. Nei primi mesi del 2014, invece, sarò in giro per l’Italia per promuovere dal vivo Django’s Roots e mi dedicherò all’uscita del nuovo album del mio quartetto, che ho da poco registrato e di cui vado particolarmente fiero: si chiamerà Penguin Village ed è un lavoro frutto di un’importante modifica nella line-up del mio gruppo, con l’ingresso di uno straordinario sassofonista di Salerno di nome Carlo Gravina… Insomma, sono abbastanza impegnato!