ECM Records – ECM 2337 – 2013
Yeahwon Shin: voce
Aaron Parks: pianoforte
Rob Curto: fisarmonica
Prescindendo linguisticamente dai richiami di fluenza sonatistica di certi mirabili passaggi alla Moving Clouds (impressionate l’autocontrollo del gioco di Parks) potremmo osservare già in apertura che l’insieme dell’opera s’affranca da dettami e vincoli dello stile, non trovandovi caratteri di tangibile appartenenza all’idioma, pur esteso, del jazz, e in definitiva nemmeno appare di repertabile foggia classicista, e molto sterile esiterebbe una ricerca mirata su tratti orientalisti, non fosse per l’imputazione (ma del tutto in positivo) di una basilare naïveté che piuttosto vive come elemento fondativo e vincente nel conferire universalità comunicativa.
Alla circolazione naturale del cantato fa da ala la sontuosa semplicità e la “miracolosa” distillazione del pianoforte, tratti distintivi che per tutta la durata del lavoro danno lustro ulteriore alla stella già assai nitida di Aaron Parks, elemento condiviso dagli estri sottili e dalle armoniche sapienti delle tastiere a mantice di Rob Curto, che permangono co-protagonisti accorti e alieni da sortite ad effetto, data la ricchezza in filigrana delle parti, non potendosi in nulla sminuire l’efficacia della prestazione di Yeahwon Shin, abile a condurre sempre con tocco gentile il viaggio, discreto nell’incedere ma risonante di forza tranquilla, con il coraggio di una coerenza e un’ostinata purezza che vive di aspetti esoterici e naturali.
Volendo operare un richiamo (teoricamente incongruo e scorretto a priori) ai recenti lavori della solida conterranea, ma per molti versi non omologa Youn Sun Nah, pur condividendone le architetture cameristiche, nel mondo sonoro di Yeahwon Shin si amministra con più spiccata parsimonia la drammaticità e s’appalesa apparente maggior dimestichezza con l’inclinazione poetica, che riesce a vivere entro panorami evocativi pur se addirittura più spogli, e compone il suo delicato florilegio operando in ulteriore leggerezza e sobrietà d’aspetti.
Opera a parti uguali Lua ya – la triangolazione fertile, sempre felicemente discreta fra le tre voci, operanti nella twilight-zone della decantazione degli impeti e della temperanza degli umori, in una dimensione di energie eminentemente lunari, induttivamente in base ad un’intesa profonda tra compartecipanti in intima sintonia, entro una teatralità “naturale” che vive del risoluto stupore dell’avvicendarsi delle stagioni interiori, dell’ineffabilità e l’intima forza del calore espresso anche dalle più fioche luci, di come un palpito possa esplicitare un compiuto ciclo vitale.
Probabilmente fiabesco nelle impressioni da quanti prediligano espressività di più veemente energia, Lua ya permane dichiaratamente ricco nella quota di naturalezza studiata ed essenzialità ad alto tasso creativo, dai molti tratti inediti, d’esito avvincente nella sua suggestiva combinazione di tocco misurato e caratura spettacolare.